Categorie: Personaggi

Naturalmente Penone

di - 7 Giugno 2004

Questa retrospettiva al Pompidou, dopo altre tante mostre presso gallerie e istituzioni francesi, è il coronamento di un legame ormai di lunga data che lei ha con questo paese. Come mai proprio la Francia?
Dipende dai periodi: negli anni ’70, per esempio, il mio lavoro si è svolto prevalentemente in Germania.

Poi cosa è successo?
A partire dagli anni ’80 in Europa si sollevava un problema di identità nazionale, in Germania con l’Espressionismo, in Italia con la Transavanguardia, entrambi movimenti dettati da una necessità politica e sociale.

E dunque la Francia…
…la Francia, che prima era stato un paese molto chiuso, si è invece aperto, grazie anche ad istituzioni come appunto il Pompidou, grazie alla creazione dei Frac (i fondi regionali per l’arte contemporanea) e di altre strutture simili. La discussione sull’arte era allora più forte in Francia che altrove. E per questo ho deciso di lavorare qui.

Il suo lavoro è tutto incentrato sul rapporto e il dialogo tra uomo e natura. Da dove proviene l’attenzione a questi temi?
Guardiamo tutta l’arte del ‘900, la natura praticamente non esiste. È qualcosa che viene dimenticato, cancellato. Fino agli anni ’60, ma anche più tardi, la discussione sull’arte era centrata soprattutto sull’uomo, sul suo rapporto con la città. Negli anni ’60, non solo da me, ma anche da altri artisti, è stata reintrodotta la natura come elemento dialettico di linguaggio. Non è stata solo una nuova sensibilità rispetto alla natura, ma anche una volontà dialettica nel reintrodurre un tema dimenticato, perché l’arte -e la discussione sull’arte- è fatta di contrapposizioni di concetti e di linguaggi.

Nel ‘900 c’è stata però anche la Land Art. Ma il rapporto tra uomo e natura appare più armonico e biunivoco nelle sue opere, dove spesso è la natura ad appropriarsi di categorie umane: il linguaggio, la memoria, addirittura le sembianze.
Si, il mio è un lavoro di tipo diverso. La Land Art è un movimento specifico legato ad alcuni artisti americani, che consiste nel creare una scultura o un’opera di dimensioni molto grandi, quindi anche con l’uso di mezzi industriali come camion o ruspe, con l’obiettivo, però, di fare una forma. Una forma sorprendente, in cui è importante la reazione, la percezione, per definire il rapporto tra la persona e la cosa. La nostra cultura, invece, non ci porta a questo. Il mio lavoro è a misura d’uomo. Non uso violenza sulla natura, ma metto il mio corpo in rapporto con essa. Anche se poi visivamente può sembrare un’aggressione, ad esempio, una mano che stringe un albero (Continuerà a crescere, tranne in quel punto, 1968), in realtà l’albero reagisce a questo contatto come un fluido. L’albero ha questa capacità di inglobare all’interno della sua crescita altri elementi, così ingloba anche una mano. In questo senso il mio lavoro diventa una riflessione di scultura, perché l’albero diventa un elemento fluido come la creta. Solo che il gesto dell’uomo nella creta è evidente in un attimo, mentre nell’albero diventa evidente in un tempo molto lungo, quindi interviene il tempo come terzo elemento.

Lei dice che “l’uomo è natura”. Ora però, le sue opere sono piene di suggestioni letterario-artistiche, dalla statuaria greca ad allusioni petrarchesche, passando per le Metamorfosi di Ovidio. Dove si incontrano, allora, natura e cultura?
Lei vede tutte queste cose, e so bene che le mie opere possono evocare tutti questi rimandi perché il mio lavoro è fatto di elementi basilari, come l’idea del guardare, di respirare, di toccare, che sono degli “archetipi” del fare. Un lavoro molto semplice, molto basilare, tocca dei problemi che sono stati anche di altri uomini, di altre culture e di altri tempi. E quindi succede che il lavoro abbia questi rimandi. Anche se non è, di per sé, una volontà di citazione.
Nell’arte c’è sempre questa dualità, questa possibilità di andare nel passato, anche perché nell’arte visiva non esiste il concetto di “contemporaneo”. Allo sguardo di una persona che non conosce la storia dell’arte, o di un bambino, le opere sono tutte contemporanee, perché lo sguardo è contemporaneo. Questa è una cosa straordinaria, che fa sì che ci si possa riferire a cose che sono molto lontane ma che sono del mondo di oggi, perché noi viviamo in una città, in una struttura, in una società in cui le cose si sovrappongono di continuo.

Il toccare come “archetipo del fare”, dunque. Per questo il tema della pelle è così centrale nei suoi lavori. La pelle è già scultura, lei dice, in quanto primo momento di interazione con lo spazio circostante. Ma non è anche primo strumento di conoscenza, di presa di coscienza del mondo esteriore e di sé?
Si, esatto, prima ancora della vista. Anche qui si tratta di elementi molto basilari. Per fare un esempio: nel momento in cui si considera la lunghezza di una stanza, si può fare una valutazione sommaria a occhio. Ma per avere una verifica, una comprensione di questo spazio lo si percorre, a passi, e ci si accorge della sua reale dimensione. C’è bisogno di questo rapporto fisico con lo spazio per poterlo definire. Perché la vista ha questo aspetto ingannevole, che è straordinario, ma che ci fa credere alcune cose che poi non sono.
La pelle è la definizione del corpo, del volume del corpo. Questo è il senso anche delle immagini automatiche, delle impronte lasciate sugli oggetti. L’impronta, il gesto, sono già delle immagini, ma non hanno valore culturale nella nostra società, che le cancella in continuazione. Invece, come immagini, vengono preservate all’interno della natura, all’interno dell’albero ad esempio.

cecilia braschi


Giuseppe Penone
Parigi, Centre George Pompidou (galerie sud)
11h00 – 21h00
7€, 5€
in collaborazione con la Compagnia di San Paolo
la mostra si sposterà alla Caixa Forum di Barcellona dal 30 settembre 2004 al 16 gennaio 2005


[exibart]

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