Cinema uno e trino |

di - 13 Ottobre 2005

La Qatsi Trilogy, di Godfrey Reggio e Philip Glass, è probabilmente uno dei ritratti più intensi della civiltà umana, còlta nelle espressioni più magmatiche, brulicanti ed estatiche che il cinema conosca. Avvicinandosi alla videoarte, il duo celebra una nuova “religione dell’immagine”, nel senso aurorale di religio (legare insieme). Cielo e terra, natura e tecnica, terzo e primo mondo, schiavi e semidei, sommersi e salvati, tutti vengono colti dall’implacabile, aggraziata visione apocalittica di Reggio-Glass. Un inesorabile ammasso trilogico hegeliano che diventa ode controversa della vita sulla terra, da parte di un regista ex frate cattolico, il cui cinema segue categorie bibliche, e di un compositore guru che fa cantare l’elettrone dentro l’armonia cosmica della propria sensibilità orientale.
Come esempi primari, all’interno del flusso immagine-musica che inscrive l’apocalittica fine del tempo nella ripetizione circolare e nella coesistenza di passato e futuro, si possono ammirare la lunga scena finale di Koyaanisqatsi (che in lingua Hopi significa “vita squilibrata”), in cui l’esplosione di uno Shuttle viene seguita ad oltranza, mentre l’unico frammento incendiato segue la parabola discendente e la musica si rarefà per lasciare posto al silenzioso scacco della hybris umana. Oppure si può notare l’apertura di Powaqqatsi (vita in trasformazione), con i minatori miserrimi della Serra Pelada placati dallo slow motion e trasformati in babelici costruttori di un sogno infranto.

Reggio usa tutte le astuzie della regia e le risorse della tecnica (del momento, poiché la tecnica è sempre del momento) per costruire la sua litania visiva, il suo atto di verità in cui il cinema smette la mimesi, abbandona il documento, tradisce la fiction e diventa, nel medium pre-cinematografico della fotografia pura mito-poiesi, generazione di nuove figure mitiche. Una nuova antica sostanza-cinema, che assume i toni della narrazione biblica, dell’epos omerico, della peregrinazione dantesca o della riflessione leopardiana.
La dimensione epocale del progetto non sfugge alla Library of Congress di Washington, che lo vuole nei suoi archivi. Quando un giorno l’uomo non sarà più, forse resterà, come in un ipotetico film di Kubrick, questa trilogia a raccontarlo e mistificarlo, tenendo insieme la Storia e la Geografia in un ritratto d’insieme in cui il passato ancestrale non è ancora passato e il futuro remoto già sopraggiunto. Tutto resta, tutto è presentito. Tutto è visto, ma di sfuggita. La fame umanistica e rinascimentale di un panopticon, al cui centro sia l’uomo, è finalmente cinema, immagine in movimento. Ma è anche musica: mantra ipertecnologico e minimale del grande complice Philip Glass, di colui che “considera lo spazio ed il tempo come […] unico ed omogeneo, all’interno del quale le variazioni sono riducibili tra loro” (Germano Celant).

In questo continuum tempestato di immagini memorabili, può capitare di vedere macchine per hot dog scorrere al ritmo forsennato di una quartina furente, spot pubblicitari trasformarsi in nube psichedelica o cascate di ghirigori virtuali fermarsi di fronte a cartoline dell’anima prodotte in mondi la cui natura è intatta e terribile. E mentre questo magma ribolle in un film uno e trino, immagini vettoriali appaiono per arrestare il flusso e tentare invano di ordinarlo: come quando la camera si volge contro i bambini, il cui sguardo impreciso e profondo ci investe dall’altro lato del mondo-schermo-velo di Maya.
L’ultimo episodio, di un’opera creata in 25 anni, Naqoyqaatsi (vita come guerra o civiltà della violenza), è il rigurgito di un possibile monolito kubrickiano, la cui opacità è trapassata dalle visioni elettroniche e seriali di un Reggio che traspare da Glass, come Glass appare in Reggio. Siamo all’apoteosi dello sdoppiamento dell’Uno spazio-tempo-cinema, nella (de)forma sonata, in chiave minimale, che assume il tono di Glaggio o di Reglass: di un blob che uccide il cinema per farlo risorgere appena, affinché non dia fastidio, mentre l’immagine trasfigurata dalla divina arma del montaggio che non (sempre) è cinema, ma(i) più-che-cinema, scorre diretta nelle viscere mentali dello spettatore, in quella zona radicale in cui lo spettacolo non si dà fuori ma dentro.

Il set scompare mentre tutto diventa set. Il mondo non è più rappresentazione (teatro) perché non c’è fuori. La membrana filmica appare come allucinazione che fluttua eterna dentro le nostre sinapsi. È la possibilità stessa di pensare il mondo, di vederlo, sentirlo. Nel massimo artificio possibile (per ora) il mondo viene ri-costruito, reglassato e glaggioato oltre la soglia della rappresentazione.

link correlati
www.koyaanisqatsi.org

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  • Questa trilogia, insieme a poche altre cose -tutto Greenaway, gli ultimi due Kubrick, il secndo Scorsese, il cinema coreano, Fight Club, Memento e Lacapagira - è davvero una delle opere più significative degli ultimi 25 anni. Onore a Reggio e a Glass.

  • complimenti Nicola Davide, ottimo articolo! Grandi Reggio e Glass, una trilogia al limite della perfezione.

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