LA POSSIBILITÀ DI UN’OPERA |

di - 7 Febbraio 2007

In un momento storico in cui la critica d’arte attinge in misura minima alle categorie dell’estetica, risulta non privo di utilità un confronto tra arti visive e filosofia. Nel volume Pillole rosse: Matrix e la filosofia (Bompiani, 2006) -testo di per sé meritevole di interesse e già spunto di dibattito- viene presentata una ficcante interpretazione della rivoluzione compiuta nell’arte del Novecento da parte delle avanguardie storiche, e in particolare da Kasimir Malevic. A soffermarsi su ciò è Slavoj Zizek: star della filosofia odierna, iconoclasta e spettacolare commentatore del contemporaneo, egli utilizza spesso come esempio citazioni di film, romanzi e, appunto, opere d’arte.
Il punto cardine della rivoluzione artistica novecentesca è individuato da Zizek nel Quadrato nero di Malevic (1915). Se è vero che Cézanne e il cubismo avevano ampiamente rivoluzionato la visione artistica del mondo, è solo Malevic che slega l’arte dalla schiavitù del soggetto, creando un luogo per l’arte in sé. È lo “spazio dell’arte”, che essa può occupare con qualsiasi soggetto e oggetto senza rinunciare alla propria sussistenza e autonomia.
Secondo Zizek lo spazio creato dal quadrato di Malevic è eterno e conterrà di volta in volta gli oggetti più svariati, dall’orinatoio Duchampiano al portacenere di Hirst. L’inserimento nelle opere d’arte di elementi prosaici ed “escrementizi” è possibile infatti proprio in seguito all’individuazione –teorica e esecutiva insieme- del luogo che costituisce l’essenza ultima, invisibile, “vuota” dell’arte. In sostanza –dice Zizek- “non c’è Duchamp senza Malevic”.
Paradossalmente, l’inserimento nell’arte di oggetti quotidian i e bassi non implica un ritorno nell’arte del Reale. Infatti, nella visione legata alla psicanalisi lacaniana di Zizek, la realtà è di per se stessa mediata, distorta come in un’anamorfosi: “il Reale è una costruzione simbolica”. E questa caduta del reale fa sì che ciò che rimane di un secolo di opere d’arte che contengono in sé gli oggetti più svariati e talora sgradevoli, è “il mero spazio vuoto che questi oggetti riempiono”, lo spazio dell’arte, appunto. Dunque, la presenza di qualsiasi oggetto posto come opera d’arte non va a coincidere con l’arte in quanto tale, e non delegittima l’arte stessa.
Questa caduta del realismo in arte è coerente con le tendenze dell’intera cultura Novecentesca, essendo caratteristica peculiare del contemporaneo e del postmoderno la perdita progressiva del principio di realtà. Proprio come in Matrix, dove la missione dell’eroe -persa in partenza, per Zizek- è quella di ristabilire i confini fra realtà effettiva e simulata. E la perdità del principio di realtà si traduce in quell’indistinzione a noi così familiare fra esperienza e rappresentazione, fra identità privata e sovrastrutture instaurate dalla comunicazione.

Eredi del “luogo” maleviciano (e suoi fraintendimenti)
Quasi tutta l’arte del Novecento ha beneficiato della possibilità aperta da Malevic di inserire qualsiasi oggetto nel “luogo dell’arte”. Lo stesso Duchamp, come ricordato da Zizek, approfitta per primo dello spazio reso disponibile per rivoluzionare l’arte con i ready-made. Sono innumerevoli i successivi inserimenti di oggetti “quotidiani” nell’opera d’arte. Ed è proprio da questa tendenza che deriva una delle questioni più problematiche per quanto riguarda il rapporto fra arte contemporanea e pubblico: alla supposta democratizzazione dell’arte -derivata dall’allargamento del pubblico dei fruitori- si contrappone uno scollamento, un’incomprensione che ha come bersaglio principale proprio l’utilizzo di oggetti quotidiani non suppostamene artistici. Il discrimine che gli artisti dovrebbero tenere presente è che il “luogo” di Malevic permette di inserire qualsiasi oggetto in un’opera d’arte, ma non un oggetto qualsiasi. Dunque, nella definizione di cosa sia un’opera d’arte, all’intenzione dell’artista sembrano doversi affiancare altri criteri, difficilmente definibili in teoria (1).
In ogni caso, si possono porre due esempi di buon utilizzo dell’eredità Maleviciana. In primis la Pop Art, che con la tecnica del riporto oggettivo introduce nell’arte il quotidiano con un’eloquenza ineguagliabile. E, infine, Mark Rothko, che compie un’operazione non molto distante dalla purezza del Quadrato nero. è vero, egli crea luoghi che contengono qualcosa di più rispetto al seminale vuoto di Malevic. Ma Rothko raggiunge un livello di rarefazione tale che potremmo definire le sue campiture sfumate come la raffigurazione concreta del lirismo, senza che si ricada dunque nella schiavitù del soggetto e della rappresentazione.

L’oggetto qualsiasi come espressione del reale
Hal Foster, nel suo fondamentale Il ritorno del reale (1996), dà una lettura opposta a quella di Zizek: l’inserimento in arte dell’oggetto qualsiasi costituisce, almeno a partire dalle neoavanguardie, un vero e proprio “ritorno del reale”. Il nume tutelare di questa lettura è ancora Lacan, ma in Foster ci si concentra, nell’ambito della tripartizione reale-immaginario-simbolico, sul primo elemento. Il reale rientra nell’arte come trauma, in conseguenza alla visione lacaniana secondo la quale lo sguardo trascende il soggetto, costituendosi, insieme all’oggetto, come minaccia per il soggetto stesso. Dunque, lo schermo –mediazione fra soggetto e sguardo-oggetto- viene rotto proprio a causa della volontà dell’artista-soggetto di difendersi dal reale traumatico. Un esempio di questa strategia è quella di Warhol, che “assume la natura di ciò che lo turba come difesa mimetica contro il trauma”. L’inserimento delle immagini violente in Warhol serve per autoanestetizzarsi rispetto ai traumi del contemporaneo, l’indifferenza è solo una strategia, non è cinismo.

Il ritorno del reale viene individuato da Foster in particolare in alcune tendenze artistiche che esercitano la possibilità aperta da Malevic: oltre alla Pop Art l’Iperrealismo, nonché le varie forme di espressione postmoderna che fronteggiano il trauma inserendo in arte l’abietto e lo scatologico.
Che afferisca al reale o al simbolico, la “possibilità” aperta dal Quadrato nero è costitutiva per l’intera arte del XX e XXI secolo. Indagarne le origini può essere utile a combattere i pregiudizi che esistono a tutti i livelli nei confronti delle “stranezze” dell’arte contemporanea.

(1) cfr. Warburton N., La questione dell’arte, Einaudi 2004

stefano castelli


William Irwin (a cura di)-Pillole rosse. Matrix e la filosofia
Tascabili Bompiani, 2006
pp.386, euro 9,50


[exibart]

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  • ho come il sospetto che il lavatory di duchamp ci sarebbe stato anche senza il quadratino di malevic. ma ogni teoria è ammessa: non essendo falsificabile.

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