LUMIÈRE

di - 10 Gennaio 2011
Invece in Italia The Social Network arriva solo al quarto
posto del boxoffice (dopo Maschi e
femmine
!) e non va meglio negli Stati Uniti, dove dopo la prima settimana
rischia addirittura di uscire dalle sale per poi riprendersi progressivamente.
D’altra parte, neanche su Facebook si parla più di tanto del film (su Wired Luca Conti scrive: “‘Social network’, il film che non piace a Facebook“) e questo vorrà pur dire qualcosa: la cosa più ovvia da
dire, infatti, è che questo non è un film su Facebook, né sulla rivoluzione
culturale che prende le mosse dalla diffusione della Rete. Se gli autori
avessero fatto un film su Apple, il risultato non sarebbe stato tanto diverso.
Sembra passare in secondo piano che questo è un film
di David Fincher (lo sapete, il regista di Fight
Club
è nalla mia top list) e sceneggiato da Aaron Sorkin (un personaggio
che, se non avesse perso tempo con vizi vari, avrebbe già qualche Oscar nel suo
palmares). Sorkin viene invitato dalla produzione a scrivere una sceneggiatura
dal libro The Accidental Billionaries,
scritto da Ben Mezrich con l’aiuto di Eduardo Saverin (l’amico con
il quale Mark Zuckerberg pone le basi per Facebook). Fincher condensa in due le tre ore della sceneggiatura
originale di Sorkin; questo spiega il ritmo frastagliato, interrotto ma
incessante, eppure questo è il ritmo della Rete… È come se Neo vi facesse
vedere la sua playlist di Youtube in trenta secondi o Tonelli in persona vi
mostrasse tutti i film di Exibart.tv in uno.

Eppure il film non è pieno di computer e tecnologia
varia. David Fincher non gira “un film su Facebook” (in effetti
questo è uno di quei casi in cui bisognerebbe vedere il film due volte: la
prima per vedere il “film su Facebook”, la seconda per vedere il
film) né racconta la storia di una start up dopo il crollo della new economy,
non si tratta della scalata di giovani nerd che sfondano grazie alle conoscenze
dei nuovi media. Le relazioni, le delusioni, i tradimenti sono gli elementi che
infittiscono la trama del film e che il regista illustra con lo stesso cinismo
con cui descriveva gli omicidi in Zodiac.
Fincher privilegia l’intreccio di relazioni che si
sviluppano intorno alla crescita di una community
della quale in troppi rivendicano il copyright. Il regista sceglie di
raccontare la storia di una persona che si sente sola e che Jesse
Eisenberg recita in modo tale che non ci risulti simpatica manco per sbaglio. Il paradosso, infatti, è che l’ideatore del social network è una persona socialmente
incapace, un borderline. Mark Zuckerberg è
l’incarnazione del nuovo capitalismo, abile a tradurre l’idea del network=rete
in rete=relazioni sociali. Il network effect presto fa gola ad altri imprenditori, ed ecco spiegato
il successo di un sito che non si regge certo sulla pubblicità. Eppure i soldi,
il successo, sono solo in secondo piano in questa storia…

Money or
the ability to make it doesn’t impress anybody around here
“, dice Mark,
Sean Parker non ha un dollaro e il suo ex-amico Eduardo gli fa causa non per
una questione di soldi ma perché i nuovi proprietari hanno fatto sparire il suo
nome dai fondatori di Facebook. The Social Network è una storia contemporanea raccontata con un
ritmo contemporaneo, sincopato tra l’intervento di un avvocato e un flashback
su un’affettività perduta; la storia di un asociale che capisce meglio di altri
come lavorare sulla socialità.
Il merito del regista è di essere rimasto fedele al
suo stile, a quel meraviglioso convertire in narrazione quella che sarebbe
altrimenti stata l’ennesima storia di un ennesimo successo, fabulare senza dare
tregua al suo pubblico, coinvolgendolo fino a farlo sentire parte in causa.

gianni
romano

critico d’arte ed editore di postmediabooks


*articolo
pubblicato su Exibart.onpaper n. 70. Te l’eri perso?
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