Non si esce vivi dagli anni ‘80

di - 9 Luglio 2018
Colto un poco di sorpresa per la scomparsa di Carlo Vanzina, figura mitica del cinema italiano intorno alla quale quelli della mia generazione – e un po’ più vecchi – si sfottevano in occasione dei racconti delle proprie avventure goliardo-surrealesche (un po’ erotiche, un po’ burlesche) epitaffiandosi con frasi tipo “Maddai, neanche in un film di Vanzina!”, torna forte una domanda alla quale non ho ancora trovato risposta, ma per la quale ho dozzine di indizi.
“Cosa resterà di questi anni ’80/ afferrati e già scivolati via” cantava tale Raf a Sanremo 1989, sancendo all’acqua di rose e in versione nazionalpopolare la fine di un decennio che si è appellato come quello “brevissimo” del Novecento; un decennio che sta rivivendo ora per interposta persona, ovvero attraverso i nativi dell’epoca, gli attuali trentenni.
Che cosa è rimasto degli anni ’80 che possiamo studiare e approfondire oggi, dopo aver ingurgitato i ’70 sotto ogni ordine e forma? Davvero quel periodo tracciato nella sua origine da “La condizione postmoderna” di Lyotard e sul finale dal crollo del muro di Berlino non è valso nulla se non a vanagloria, riflusso, e a una spensieratezza capitale che ha contribuito – nel ventennio successivo e oltre – ad affogare l’Italia e – perdonate l’autoreferenzialità – la mia generazione?
Yuppies
Uscendo, nei giorni scorsi, da “That’s IT”, la bella mostra che ha messo in scena Lorenzo Balbi al MAMbo di Bologna, mi sono chiesto se, paradossalmente, non fosse esattamente questa la stessa sensazione che si avvertiva negli anni ’80 che non ho vissuto: la possibilità di mettere in scena, con estrema libertà e con una rinnovata voglia di consapevolezza, un proprio – personalissimo – punto di vista sul mondo. Un messaggio slegato dalle grandi narrazioni e forse più vicino alla consapevolezza delle delusioni, della perdita e dell’imprendibile. Una scena poco inquadrabile, ma non per questo meno potente. Soprattutto se si sceglie di leggere tra le pieghe delle piaghe sociali che abbiamo avuto la colpa di importare, dalla Presidenza di Ronald Reagan in poi (durata proprio dal 1981 all’89).
E cosa c’entra Carlo Vanzina? C’entra eccome. C’entra perché la “sottocultura” non è mancanza di cultura, ma è quello che resta di intellettualmente forte laddove l’utopia e il senso di appartenenza vengono a cadere, quando gli “uomini epici” vengono sotterrati dalla loro stessa storia. Forse, in maniera blasfema, quando falliscono le idee.
Che cosa sono stati gli “Yuppies” della “Milano da bere” del Vogue della metà degli anni ’80, e “Le finte bionde” della Capitale sul finire di quel decennio se non le arcaiche proiezioni della società attuale?
Si dice che degli anni ’80 non è rimasto nulla e invece – accettasi smentite – guardandoci un poco intorno sembra di vivere in una amplificazione colossale del decennio, specialmente se si toccano ambiti come l’edonismo, l’individualismo, la “vuotezza” del pensiero a favore dell’immagine.
Le finte bionde
Se gli anni ’80 avessero avuto Instagram o Facebook non viene facile immaginarsi un tripudio di immagini di giovani rampanti in vacanza ai Caraibi o in volo per lavoro o per tentare la fortuna a New York, con la compagnia di bandiera che all’epoca macinava fatturati da record e altrettanti consensi di pubblico? E che dire di quello che avremo potuto vedere attraverso i social network della moda dei Paninari o del glorioso Giorgio Armani dell’epoca e di tutte le sue linee? Tutto.
Oggi, oltre a poter vedere quella storia, ne possiamo incontrare milioni d’altre, ognuna in nome del proprio personale credo condiviso con il resto del proprio personale branco, in nome di quella perfetta pubblicità mirata che ci ha reso meravigliosi acquirenti di noi stessi.
E così, ancora, Vanzina c’entra non perché sia stato un intellettuale dalle mille risposte, ma un perfetto “raccoglitore” di quelle immagini, il regista – appunto – in grado di restituirci una serie di passaggi che tutto hanno avuto fuorché il problema di “non aver lasciato nulla” nella nostra vita attuale e nel mondo contemporaneo.
Milano, ancora, nonostante le crisi di prima e quelle di oggi, è la città italiana dove chiunque può tentare di bere il proprio cocktail, cercando un’autorealizzazione che lo smarchi da quell’essere provincialmente “mora”, l’onta che ogni finta bionda cerca di lavarsi via. E Cortina, come Portofino o Crans Montana o Saint Moritz, restano i luoghi nei quali guardare in alto ed esclamare: “Guarda chi c’è in cielo! Chissà se un giorno anche noi potremmo arrivare qui in elicottero…” come facevano Calà, Greggio, Boldi e De Sica, glorificando l’Avvocato Agnelli. Correva, in questo caso, l’anno 1986.
Sapore di Mare
Dopo l’Avvocato Agnelli per molti, indubbiamente, c’è stato come riferimento il Cavalier Berlusconi, e oggi anche questi due “piccoli” miti sono stati accantonati per una mitizzazione ancora più personalizzata in base alle proprie esigenze ed esperienze, una mitizzazione tailor-made.
Che gli anni ’80 abbiano sancito l’origine di questa strana catastrofe dove ognuno si comporta “divinamente”, da divo, probabilmente inconsapevole delle proprie miserie, perché nessuno insegna più a considerarle tali ma anzi le esalta, è fuor di discussione.
Ma visto che trattasi ormai di storia, e visto che i “figli” sono qui a bussare alle porte del futuro, è il caso di ripartire da lì – e da allora – per scoprire l’antidoto a questa esasperazione formale e al deserto globale (per non dire intellettuale) nel quale galleggiamo senza il fiato necessario che ci permetta di fare qualche bracciata in avanti.
E Vanzina? E Vanzina, ancora, può venirci in aiuto. Un salvagente catartico contro le finte bionde, le finte modelle, i rampanti falliti.
Un po’ come gli Afterhours che, nel 1999, cantavano la splendida canzone che ho usato per dare il titolo a questo pezzo. Ma questa, quella degli anni ‘90, credo sia un’altra storia ancora.
Matteo Bergamini

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