Si fa presto a dire Fiera

di - 24 Marzo 2017
Cosa sono le fiere d’arte? Semplicemente fiere. Luoghi in cui un’organizzazione centrale cerca di riunire quanti più venditori da un lato e quanti più potenziali clienti dall’altro.
All’interno di questo processo ci sono poi i servizi a valore aggiunto, che contraddistinguono (più o meno) tutte le fiere che ambiscono a crescere a livello internazionale: eventi vip, aree riservate, cene esclusive e contenuti esperienziali (dai concerti alle esposizioni).
Il modello di business in tutto ciò è piuttosto chiaro: da un lato ci sono i venditori (gallerie) che sperano di vendere ai potenziali clienti (frequentatori) dei beni in loro possesso, e che per questo pagano l’affitto di uno spazio sperando che il totale delle vendite superi i costi (affitto spazio, in alcuni casi quota spese, viaggi, trasporto, etc.). Per le organizzazioni, le gallerie rappresentano un centro di ricavo, ed è quindi tutto loro interesse raggiungere un dimensionamento (sul lato dell’offerta) internazionale, così da poter raggiungere un numero di frequentatori sufficientemente ampio, così da garantire l’equilibrio tra costi da sostenere, ricavi derivanti dai venditori e da altri servizi aggiuntivi, garantendo al tempo stesso ai venditori un ritorno economico congruo.
A questo modello si associano altri centri di ricavo: gli sponsor (che investono parte del loro capitale destinato alle attività di comunicazione per ottenere visibilità) e i “premi”, che in modo un po’ semplicistico e brutale possono essere associati (a seconda della categoria di contratto che sottoscrivono) con lo strumento della donazione liberale o con lo strumento della sponsorizzazione.
Il Miart, su questo versante, mostra tutte queste figure: gallerie provenienti da tutto il mondo, sponsor tecnici e sponsor economici, premi per ogni categoria di vendita.
In altre parole, il Miart potrebbe (come altre pochissime fiere italiane) diventare un buon punto di riferimento internazionale, ma c’è una scure che grava su tutte le nostre fiere d’arte, rendendo più difficile la loro affermazione internazionale: l’Italia.
A livello internazionale, si sa, l’Italia ha una legislazione molto conservatrice, e una fiscalità altrettanto inibitoria. Questo si traduce in una ridimensionamento anche per l’attrattività delle Fiere, che si rivolgono, quindi, soprattutto ad un mercato domestico, con conseguente ridimensionamento del numero e del volume degli scambi.
E questo incide soprattutto sull’ultimo player economico interessato alle fiere, una volta che esse raggiungono un dimensionamento per flussi di visita rilevante: la pubblica amministrazione.
Il turismo fieristico è una particolare categoria di turismo che ha conosciuto un rapido sviluppo negli ultimi anni, grazie alla facilità dei trasporti e al calo dei prezzi medi dei vettori, al punto che ci sono, sia a livello nazionale che internazionale, intere città che hanno riconvertito parte della propria offerta turistica per posizionarsi su questo filone di consumo.
Milano rientra tra queste: la settimana della moda, il design, i convegni di tipo economico-finanziario e tutte le altre fiere che vengono ospitate in città rispondono esattamente a questo tipo di strategia.
In termini di ritorni netti, un evento internazionale riesce ad attrarre consumi in molti comparti economici (dall’aumento temporaneo dell’occupazione agli arrivi nazionali e internazionali, dal trasporto pubblico e privato, ai consumi per ristoranti).
A differenza di mega-eventi come l’Expo, inoltre, le fiere contano su un hardware già costituito, prevedendo di conseguenza un investimento nullo o minimo per la città.
Ma se l’Italia non sblocca la propria competitività internazionale, questi eventi, per quanto possano essere di successo, produrranno sempre entrate limitate rispetto alle proprie potenzialità.
Non è soltanto un problema di MiArt, è un problema di tutto il nostro sistema Paese, che perde così una grande fetta di mercato.
E così, mentre in Spagna si sta abbassando l’aliquota IVA della tauromachia (la Corrida) in qualità del portato culturale (elemento, tra l’altro, fortemente discusso) che rappresenta, in Italia non si parla assolutamente di come e quanto, il regime fiscale imputabile alle vendite d’arte possa essere rivisto, correggendo delle distorsioni che inficiano il settore artistico in tutte le sue forme.
Miart, Artissima, Artefiera, ArtVerona scontano tutte questo vincolo di scenario. E sono un’occasione utile per poter pensare non soltanto in termini di “posizionamento Paese”: si tratta di guardare i numeri che fanno con i numeri che potrebbero fare se, aggiungere una spesa media calcolata sui dati storici, e vedere come una lentezza (volendo essere garantisti) del nostro Paese possa generare una perdita secca di benessere.
Stefano Monti

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