Chi l’ha detto che Londra è grigia?

di - 4 Agosto 2015
To overwhelm è un verbo inglese non perfettamente traducibile in italiano: essenzialmente vuol dire sopraffare, ma implica anche l’idea di qualcosa che travolge o sommerge, come una valanga o un’alluvione, senza possibilità di resistenza. Ecco, overwhelming può essere definita la “Summer Exhibition” della Royal Academy di Londra (fino al 16 agosto), che dal 1769 ha luogo ogni anno, per l’appunto in estate, permettendo a tutti gli artisti selezionati, di norma accademici, famosi e sconosciuti, di esporre i loro lavori nelle sale della Burlington House, nel cuore della capitale inglese, a Piccadilly.
Come overwhelmed è anche la povera statua del fondatore della R.A. Joshua Reynolds, minacciato dalla scultura gigante dell’accademico Conrad Shawcross, The Dappled Light of the Sun, che infesta e invade la Annenberg Courtyard all’entrata: quasi a sottolineare l’apertura alle tendenze artistiche più moderne delle ultime edizioni della mostra, storicamente rappresentativa di un certo conservatorismo reazionario.
L’evento, commentatissimo in patria (come da noi, mi si perdoni il blasfemo accostamento, il festival di San Remo), è stato coordinato quest’anno dall’artista Michael Craig-Martin – professore al Goldsmiths di molti Young British Artists durante gli anni Ottanta – ma ogni sala è in realtà a cura di un artista della commissione. La caratteristica più evidente – a parte la presenza di scultura in una proporzione maggiore rispetto alle altre edizioni e la più spiccata attenzione al contesto architettonico – è l’utilizzo di colori molto saturi e contrastanti – magenta, verde, celeste – per le tre sale principali, quasi a cercare colpi d’occhio che evocano l’inventivo regista Wes Anderson.

Sembra proprio che il colore sia una dominante dello show di quest’anno: a partire dalla scalinata d’ingresso resa caleidoscopica da Jim Lambie, fino alla corona di lastre trasparenti e colorate che gravitano sospese nella sala principale, Applied Projection Rig di Liam Gillick.
Entrando nelle sale si è subito colpiti dalla quantità abnorme di opere esposte – quest’anno 1131 –  e dalla densità con cui occupano pareti e pavimenti: l’occhio vaga da un punto all’altro, ci si avvicina alle opere per sapere almeno il titolo, ma niente! Solo numeri, forse per garantire allo spettatore il diritto di poter guardare i lavori senza essere influenzato da nomi o altre informazioni. E anche bollini rossi. Già, perché le opere si possono acquistare, per finanziare l’unico istituto post-laurea gratuito nel Regno Unito, le Royal Academy Schools.
Superato lo shock iniziale, e ripresisi dallo stordimento, si ci inizia a orientare grazie a una piccola guida/prezzario fornita all’entrata e a capire chi è chi.
Inizialmente sono le opere più monumentali e spettacolari – seppur non brillanti per originalità – a sequestrare prepotentemente l’attenzione: il colossale Doryphoros di Matthew Darbyshire, fatto di piani translucidi e colorati, per esempio, o l’enorme e suggestivo uomo in fiamme (che sinceramente ricorda un angelo caduto) Erebus di Tim Shaw.

Solo in un secondo momento si possono iniziare a gustare i particolari più raffinati. È a questo punto che si ci può imbattere in una serie di piccole incisioni di Tracey Emin – sì, perché quest’anno ben due sale sono dedicate alle stampe – straordinariamente raffiguranti non amplessi o brutali nudi ma teneri animaletti, oppure in una sfida virtuale tra pittori nella sala VIII, i cui due principali partecipanti sono William Bowyer e Mick Rooney.
Sorprende l’infilata prospettica del terzetto Anish Kapoor, Anselm Kiefer, Mimmo Paladino, i cui lavori dialogano attraverso tre sale rimandando l’uno all’altro, o l’enorme arazzo di Grayson Perry, che contrasta violentemente con le opere di piccole dimensioni cui la sala I è dedicata.
E quando si pensa di aver visto tutto, anche la sezione fotografica e quella architettonica, ecco spuntare la Small Weston Room, affollata dai disegni di William Kentridge, da poco eletto Accademico onorario, e dalla grande litografia Remembering the Treason Trial, in cui si fa riferimento al processo a Nelson Mandela (cui partecipò il padre stesso di Kentridge, Sydney, in qualità di magistrato).
E chi hanno premiato? Chi? Dai diccelo!, immagino chiedersi smaniosi i lettori di Exibart. In lizza per il Charles Wollaston Award, il riconoscimento più importante (£ 25.000), c’erano nomi importanti, come Richard Long con la sua stampa gigante Mississippi River Blues, o lo stesso Kentridge. E invece il premio è andato al dipinto Herr Rehlinger In White Armour, sospeso tra Art Brut e vera brutta pittura, dell’ottantenne Rose Wylie. Suona tanto come un premio alla carriera per la pittrice britannica, che da qualche anno sta vivendo in patria un’impennata di fama e fortuna critica.
Mario Finazzi

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