CORONAMENTO D’UN MUSEO

di - 15 Novembre 2007
Quando Teodolinda fece la sua scelta, Monza era poco più di un villaggio. Secondo la leggenda, fu su consiglio di una colomba che la neo-regina la elesse a sua residenza, al posto di Pavia e di Milano. Rimasta da poco vedova di Autari, la giovane bavarese aveva appena sposato il duca di Torino Agilulfo. Correva l’anno 590. Un lustro dopo, la regina posava la prima pietra della cappella dedicata a San Giovanni Battista, costruita adiacente al palazzo. Nasceva così il futuro Duomo di Monza, il cui aspetto attuale lo dobbiamo alla volontà di Matteo Visconti di fare dell’edificio un simbolo della devozione della sua famiglia. Quei lavori che, iniziati nel 1300 e terminati dopo la morte di Matteo da Campione (1396), anima e mente del progetto, incarnano nel rosone e nella facciata la sintesi dell’azione salvifica che Chiesa e Impero devono, concordemente ma ciascuno a suo modo, portare avanti sulla Terra.
Scelta dalla cattolica Teodolinda come sua residenza favorita, Monza diventò il centro propulsore della missione evangelizzatrice che la regina attuò, in accordo con papa Gregorio Magno, presso il suo popolo in gran parte ancora seguace dell’eresia ariana, agli albori del nuovo secolo. In San Giovanni fece battezzare il figlio Adaloaldo, lo seppellì con il marito alla sua morte (626), si fece seppellire ella stessa, creandosi una sorta di mausoleo che da subito divenne oggetto di venerazione da parte dei monzesi.

E in San Giovanni è conservata la celeberrima corona ferrea, indossata da re e imperatori -dai re d’Italia a Federico Barbarossa, da Carlo V a Napoleone- ora simbolo universalmente noto della città.
La corona fa parte del Tesoro del Duomo, ma essendo una reliquia -si vuole animata dalla presenza di uno dei chiodi che trafissero Cristo, ritrovato secondo la tradizione da sant’Elena, madre di Costantino, nel lontano 326- non può essere spostata dal tabernacolo della cappella di Teodolinda, creata nel 1895 da Luca Beltrami. Una sua copia perfetta può però essere ammirata, finalmente, nel nuovo Museo che ha aperto i battenti in questi giorni dopo ben dieci anni di lavori, grazie al mecenatismo di Franco e Titti Gaiani, quindici metri scavati in sotterraneo e un allestimento di tutto rispetto firmato da Cini Boeri con l’apporto di Pierluigi Cerri e di Serena e Francesco Iannone per l’illuminazione.

Si entra dall’esterno, senza passare dal Duomo, anche se il percorso comincia proprio nella cappella della corona. Dentro, s’incontra subito la sezione Filippo Serpero, già museo autonomo voluto dalla parrocchia nel 1963, che contiene arazzi del Cinquecento e arredi liturgici, ma soprattutto le reliquie e i capolavori d’oreficeria che hanno reso la cattedrale briantea famosa in tutto il mondo. C’è la chioccia d’argento coi suoi sette pulcini nell’atto di beccare, ritrovata già nel Medioevo nel sepolcro della regina. Non se ne conosce esattamente il significato, ma forse è una semplice metafora della regina che “cova” il suo popolo, contornata dai suoi duchi. C’è poi la corona votiva di Teodolinda, la croce detta di Agilulfo, classico esempio di horror vacui barbarico per la tempesta di gemme e i pendenti a forma di bocciolo. Ci sono infine reliquie e reliquari, ma anche la splendida legatura dell’Evangeliario d’oro ricoperta di smalti e gemme, raffinata e preziosa quanto pochi altri esemplari al mondo.
Parte di questi gioielli furono donati dalla regina stessa al Tesoro della cappella come dotazione, mentre altri giunsero in dono dal pontefice in occasione del battesimo del principino. Altri ancora -come una grande croce di Ariberto d’Intimiano– furono trafugati durante i secoli, soprattutto corone e calici, poi rifusi o finiti chissà dove. Quello che resta, complice l’allestimento sobrio nel design ed efficace nelle luci, rende comunque l’idea della ricchezza e della raffinatezza straordinarie presenti alla corte longobarda, tutto il contrario di quel che si dice (e per la controprova si vada a Torino alla mostra loro dedicata a Palazzo Bricherasio) quando si etichetta questo popolo come rozzo e barbaro, digiuno di ogni gusto estetico.
Il percorso museale continua utilizzando il 1300, l’anno del primo Giubileo, come spartiacque, quando il Duomo fu rifondato dai Visconti con intenti in gran parte autocelebrativi. Dal Trecento a oggi, il percorso è ripartito in quattro grandi sezioni, raggruppate per temi. Si inizia con Giovanni Visconti, arcivescovo e signore di Milano che rese possibile la restituzione del Tesoro al Duomo dopo il trasferimento ad Avignone al seguito della sede papale. Poi è la volta di Matteo da Campione, artefice tra 1350 e 1396 della facciata, del battistero oggi scomparso e dello splendido pulpito che domina la navata centrale. È una vicenda elaborata, quella che si dipana tra lastre di marmo che raffigurano satiri e sirene, animali tratti dal bestiario medievale, ma anche i simboli degli evangelisti e le testine provenienti dai gugliotti della facciata. La si rilegge anche attraverso i grandi affreschi che rappresentano gli albori del mito di Teodolinda nel Trecento monzese -mito raccolto in seguito dai fratelli Zavattari nel celeberrimo ciclo realizzato dentro il duomo-, un frammento di Crocifissione attribuito a Michelino da Besozzo e i capolavori dell’oreficeria tardogotica lombarda.
Dagli Sforza al Cinquecento, ecco il polittico della Madonna in trono e altre tavole di soggetto sacro. Ed ecco, soprattutto, lo spettacolare allestimento che ricompone la grande vetrata del rosone della facciata: misura ben dodici metri di diametro e fu creato alla fine del Quattrocento. E se nel XIX secolo fu sostituito al suo posto da una copia esatta, ora l’originale si può ammirare grazie a un sapiente gioco di luci in tutta la sua stupefacente policromia. Poco lontano ci sono i ricchi arazzi, due grandi capolavori da cartoni di Arcimboldi con le storie di San Giovanni e i Millefleurs fiamminghi da poco restaurati dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze.

Si passa poi ai Borromeo, ai Durini e agli Asburgo, alla stagione barocca e tardobarocca con la quadreria che contiene, tra gli altri, il ritratto di Giuseppe II. Infine, i bozzetti in gesso realizzati da Angelo Pizzi su disegno di Andrea Appiani per il ciborio neoclassico dell’altare maggiore, realizzato a cavallo tra dominazione asburgica e prima età francese. Un’epoca oscura e maldigerita dai monzesi, che ancora ricordano il tesoro prendere la via di Parigi con la Corona Ferrea in testa, destinata a cingere il capo prima di Napoleone e poi di Ferdinando I d’Asburgo.
Da allora a oggi, molto tempo è trascorso, e non senza lasciar tracce. Ma, a testimonianza eloquente del legame mai interrotto tra il Duomo e la storia dell’arte, c’è la Crocifissione di Lucio Fontana, il Cristo Risorto di Luciano Minguzzi e i cartoni di Sandro Chia per le vetrate dedicate a Sant’Ambrogio e a San Carlo Borromeo, giustappunto appena ricollocate in Duomo. Opere contemporanee, che uniscono il passato al presente, nel cuore della città che presto diverrà provincia.

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elena percivaldi


Museo del Duomo
Piazza del Duomo – 20052 Monza
Orario: da martedì a domenica ore 9-13 e 14-18
Ingresso: intero museo € 6; ridotto museo € 4; intero corona € 4; ridotto corona € 3; intero integrato € 8; ridotto integrato € 6. La biglietteria chiude un’ora prima del museo
Catalogo Silvana Editoriale, pp. 72, € 10
Info: tel. +39 039326383; info@museoduomomonza.it; www.museoduomomonza.it

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