Gauguin e Dumas

di - 22 Giugno 2015
La Fondation Beyeler è uno dei musei più apprezzati del mondo. Non grandissimo, ma di grandissima qualità. Costruito da Renzo Piano nel 1997, è forse considerato il museo più riuscito dell’architetto genovese. Se il Centre Pompidou di Parigi è stata una vera e propria invenzione museale, specie considerando l’anno in cui è sorto: il 1977, che dava inizio a qualcosa che prima semplicemente non esisteva, facendo suo il cambiamento che aveva rivoluzionato l’arte, annullando l’idea della quadreria e creando grandi spazi per essa, senza una gerarchia verticale, ma ponendo lo spettatore nell’orizzontalità di una scelta tra media, opere e mostre diverse, la Fondazione Beyeler rappresenta invece il museo perfettamente integrato nel paesaggio, con cui dialoga in maniera serena, senza instaurare quell’infinito intrattenimento di ordine mediatico che, in virtù della trasparenza dell’edificio, il Centre Pompidou allaccia con la città.    
Creando la Fondazione Beyeler, Renzo Piano ha dato vita a un luogo per l’arte, non spettacolare ma pensato per dare al pubblico una fruizione attenta, un altro esempio luminoso è proprio a Basilea con lo Schaulager di Herzog & de Meuron: «la migliore “casa dell’arte” che abbiamo realizzato», mi disse anni fa Jacques Herzog. Di suo, la Fondazione, ha messo una collezione tra le più solide del mondo, che annovera, tra altre, opere di Van Gogh, Bacon, Monet, Braque, Picasso, Mondrian, Giacometti, Klee, Matisse, Degas, Chagall, che Ernst Beyeler ha collezionato negli anni mentre operava dalla sua celebre galleria, mostrando un vero intuito nel saper scegliere e anche una capacità di fare impresa con l’arte senza abbassarne la qualità. Non a caso Ernst Beyeler è stato anche tra i promotori di Art Basel, che rimane la fiera più importante del mondo.
La settimana scorsa, la Fondazione Beyeler è stata letteralmente presa d’assalto. Al suo esterno si sono formate code sterminate per vedere non tanto la collezione, “sacrificata” in sole due sale: una, eccezionale, con opere di Calder (dipinti e mobiles) e un’altra dedicata a grandi lavori di Robert Ryman. A spingere la folla verso questo quartiere fuori dal centro di Basilea, già inoltrato nel verde – dalle lunghe vetrate di cui Piano ha dotato l’edificio si possono guardare cavalli e altri animali pascolare liberamente nel parco mentre ci si riposa in comodi divani – sono le mostre di Gauguin e di Marlene Dumas.
Del pittore francese si possono ammirare opere che normalmente si vedono solo nei libri, quando ad illustrare l’opera di Gauguin l’editore e il curatore scelgono i quadri migliori, che raccontano l’incanto per il mondo dei Mari del Sud che catturò Gauguin e per il quale abbandonò Parigi, la vita bohémien, che era già il suo secondo giro di giostra, dato che aveva iniziato come broker di borsa (vi ricorda qualcuno la storia?), lavoro che aveva mollato per dedicarsi interamente alla pittura.
Giustamente la mostra alla Beyeler comincia con i primi anni parigini di Gauguin dove, accanto a scene di vita quotidiana, l’artista spesso si ritrae, ed è esposta anche la sua palette di colori dove emergono quei rosa, gli azzurri e l’arancio che tanta parte avranno nelle opere realizzate in Polinesia. In questo periodo prevalgono invece colori acidi come il giallo e una scelta stilistica che caratterizza Gauguin allontanandolo definitivamente dall’Impressionismo, di cui l’artista era – come si sa da alcuni scritti e testimonianze – sufficientemente stufo. La sua pittura si stende con precisione sulla tela, riducendo molto la prospettiva e ponendo quasi sempre al suo centro, o appena spostato, un elemento verticale disturbante, che sia un albero, una croce, una gamba o qualcos’altro, che spezza l’armonia compositiva e quasi dichiara guerra ad essa, all’arte che c’era stata fino allora. È una pittura sofferta, dura, dove non emerge nessuna joie de vivre, quale invece si ritrova nel lavoro che farà una volta approdato nell’emisfero sud.

Passate le prime sale, la pittura cambia completamente. Ecco la giungla con la sua folta, ma morbida, vegetazione, le spiagge, le donne con i fiori nei lunghissimi capelli neri, coperte da parei colorati o seminude, che guardano lo spettatore con sguardo enigmatico, come provenienti da un altro mondo, quello che cercava Gauguin. Sentimento della natura e una felicità raccontata attraverso colori vividi e per certi versi dolcissimi, erotismo e innocenza si fondono in questi quadri che sono quasi il diario di un sogno e di una vita passata a cercare di dargli corpo.
Gauguin, racconta la mostra, morirà povero e malato alle Isole Marchesi. Neanche un ritorno a Parigi per racimolare un po’ di soldi, prima dell’ultimo trasferimento alle Marchesi, riesce a cambiare quella situazione drammatica. Mi chiedo – e penso che se lo chiedano in molti  – se mai avesse potuto immaginare il successo postumo, l’essere diventato proprio quest’anno l’artista più pagato del mondo dopo che un suo quadro, di proprietà di uno stravagante collezionista di Berna, è stato acquistato alla stratosferica cifra di 300 milioni di dollari dalla famiglia reale del Qatar. No, non se lo poteva immaginare. Non solo perché questo è il destino di molti artisti che in vita non sono baciati dal successo (vedi l’amico Van Gogh con cui divide nove mesi di turbolenta e creativa vita in Provenza), ma perché questo va al di là della pur paradossale vicenda del successo e ha a che fare con lo status che oggi rappresenta l’arte, il potere del denaro che gira intorno ad essa, il suo utilizzo come merce di altissimo scambio. Tutte cose che a Gauguin erano profondamente estranee, non perché fosse un “puro”, ma perché tutto questo ha a che fare relativamente con l’arte.

Lasciamo Gauguin per immergerci nel mondo acceso, non nei colori ma nei sentimenti, di Marlene Dumas.
È la più vasta antologica realizzata in Europa, la mostra dedicata all’artista olandese, cui lei stessa ha collaborato attivamente e che inizia dai primissimi lavori della metà anni Settanta, dei collage. Il percorso si snoda tra le note Magdelene bianche e nere, i ritratti della figlia bambina e in età puberale, i dipinti degli anni Novanta fino agli ultimi lavori, di grande e piccolo formato, tra cui anche un ritratto di Osama Bin Laden. Si tratta per lo più di volti, che a volte paiono colti nel sonno o immobilizzati dalla morte, a parte qualche dipinto di gruppo e di strane famiglie, molti dei quali si sono visti nell’antologica alla Tate Modern di qualche anno fa e, più recentemente, allo Stedelijk Museum di Amsterdam, sua città d’adozione (Dumas è nata a Città del Capo). Dumas  lavora con olio su tela, acquarelli e chine su carta, qui ne sono esposti per un totale di più di 100 pezzi, intervallati da alcune frasi tratte dalla sua recente raccolta di scritti Sweet Nothings. Notes and Texts.

Vedendo una selezione così vasta delle sue opere, quello che colpisce di questa artista, che non dipinge mai dal vero – “uso immagini di seconda mano e esperienze di prima mano”, si legge in uno dei suoi aforismi – è l’estrema fluidità del tratto. Che a volte si riduce a un rapido segno, capace però di dare un’espressione nettissima ai volti che raramente si trova in pittura. Sì, a Dumas bastano due accenni di colore e c’è un volto, una storia, un personaggio. È stupefacente la sua capacità in questo senso e anche la coerenza che ha mantenuto nel tempo. Di lei si è data una lettura per lo più orientata a coglierne l’erotismo, ma più di questo – tratto che Marlene Dumas rivendica con forza, ma non convenzionale: “La Maddalena è l’icona bianca della puttana redenta, ma per questo io l’ho fatta nera”, mi disse in un’intervista di anni fa  – a prevalere è la forte drammaticità che innerva tutta la sua opera. E che spiazza lo spettatore.
In conclusione, due mostre eccellenti che fanno di Basilea una meta dell’arte oltre l’inimitabile fiera.  
           

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