Il site specific secondo Luca Massimo Barbero

di - 3 Aprile 2016
Nella serie di mostre curate da Luca Massimo Barbero, questa al Guggenheim dedicata all’Espressionismo Astratto, tra gli anni Quaranta e Settanta del Novecento, nasce sotto il segno del site specific, tratto distintivo del curatore, come documentano le mostre a proposito della ricerca dell’avanguardia romana degli anni Sessanta e Settanta, per esempio la mostra dedicata a Capogrossi. E ha l’obiettivo di offrire nuove possibilità di lettura dell’arte del dopoguerra fino alla soglia degli anni Ottanta fra le due sponde dell’Atlantico, grazie alla complicità di Ca’ Venier dei Leoni che costituisce il contesto biografico, linguistico, artistico e geografico dell’universo generato dal genio di collezionista della padrona di casa, il cui fantasma aleggia in tutte le stanze/sale della casa/museo.
Le prime opere che incontriamo sono dipinti e disegni di donne, personaggi e studi di ritratti nel contesto dei minori dell’Avanguardia newyorkese, con l’omaggio a Tworkow; il pezzo più importante della prima parte è il ritratto di Zoe Sharkey, in tailleur verde, nell’atto di alzarsi impaziente per tornare al lavoro; la figura di una donna in carriera ritratta da un artista più per come non è, per cosa si discosta dai modelli classici, dà la cifra e rende conto di tutta la novità di un mondo che per la prima volta infrange convenzioni e ruoli. Oggi una donna in tailleur verde è una figura banale, ma se si guardano i primi disegni e studi di figure femminili dello stesso autore, che ancora riflettono sulla lezione del Cubismo e su un primitivismo quasi ingenuo, gli studi e i disegni per il ritratto mostrano il progressivo dissolversi della figura nella materia e l’ingresso della analisi junghiana nelle vite di artisti e committenti, fino a trasfigurare gli oggetti quotidiani in simboli tra il cosmico e il primitivo. È il caso delle opere di Davie e de Koonig, fra gli altri.
Il percorso espositivo continua con due sale dedicate agli italiani, Accardi, Afro Basaldella, Ciussi, Dadamaino, Fontana, Lazzari, Santomaso, Scialoja, Vedova, per citarne solo alcuni, poi l’omaggio conclusivo alla scultrice Claire Falkenstein, autrice di molti dei cancelli–sculture delle ville più importanti degli anni Cinquanta, e del cancello tra la calle a Dorsoduro e il giardino; l’opera è rappresentata dai primi studi, fino ai modelli e ai bozzetti. Il cancello-scultura da solo rende esplicita la soglia del museo e della collezione già prima di entrare, presentando un invito a riflettere sull’infinito microcosmo del quadro nel quadro, costituendo un diaframma poroso fra il giardino e Venezia, più che un cancello. Guardando le sculture della Falkenstein, non si può non pensare alle architetture di Eisenman, al respingimento e insieme all’accoglienza per paradosso dell’elemento organico e naturale nell’artificio della forma disegnata e persa per eccesso di “lavoro”, come accade nei dipinti di Mondrian a proposito dell’albero, esposto nella collezione principale.
Da un lato, la mostra espone i “minori” dell’Espressionismo Astratto americano – minori in senso relativo se paragonati, anche solo in termini di aste, a Jackson Pollock – dall’altro, espone e sviluppa i mezzi toni e le opere minori della collezione personale di Peggy Guggenheim, continuando il lavoro sulla individuazione delle condizioni storiche e culturali per la costruzione della collezione principale e della definizione dei personaggi maggiori dell’arte astratta e di avanguardia, mettendo in luce la forte innovazione e anche l’interpretazione indipendente dei temi dell’avanguardia operata dagli artisti italiani.
Questa mostra costruisce il panorama, anche in senso geografico e figurato, dell’avanguardia newyorkese negli anni dai Quaranta ai Sessanta e della ricezione artistica italiana, con una capitale ideale che è Venezia, con i suoi mosaici di vetro e i marmi, la sua estetica della superficie così cara a Alois Riegl e ai conoscitori della cultura mitteleuropea di inizio secolo. Senza l’azione di ricerca e innovazione linguistica e artistica condotta in prima persona da Peggy Guggenheim attraverso la sua collezione, questa tradizione post-bizantina sarebbe rimasta addormentata nella celebrazione dei fasti del passato, al limite della perdita di senso, ridotta a ricordo affettuoso e feticista ad uso dei pochi, e sempre meno numerosi, in grado di esercitare una tale acribia filologica da superare la nostalgia e comprenderne l’attualità. Una volta conclusa la visita, appare tutta la contaminazione portata e scambiata in Italia, in particolare a Roma e a Venezia, tra le avanguardie americane, che lavoravano sull’inconscio e sulla visione dopo la filosofia, e i pittori italiani, che scoprivano attraverso quel gesto la novità dei propri luoghi, delle proprie tessiture, della propria esperienza primaria di una storia lunghissima.
Irene Guida
In alto: Claire Falkenstein working on Sun #4, Paris 1954, photo by Leni Iselin
In home page: Robert Motherwell, Personaggio (Autoritratto), 9 dicembre 1943 – collage di carta, guazzo e inchiosutro su tavola, 103,8×65,9 cm. Collezione Guggenheim, Venezia

Ha collaborato con Duel, Duellanti, D’Architettura scrivendo di spazio e arte. Collabora con Exibart dopo aver pubblicamente richiesto a Germano Celant di firmare una dichiarazione che ripetesse le sue parole “Ragazzi, l’arte, in fondo, è artigianato”. La richiesta non è stata esaudita. Ha inoltre studiato presso l’Università IUAV di Venezia, dove ha seguito il laboratorio di Joseph Kosuth e ha conseguito un dottorato in Urbanistica nel 2012, dopo un periodo di studi negli Stati Uniti presso la UMBC di Baltimora e la New School di New York. Svolge attività didattica e di ricerca all’Università IUAV. Fra i suoi testi, Corridoi. La linea in Occidente, Quodlibet, Macerata 2014.

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