La bruttezza salverà il mondo

di - 11 Luglio 2013

In un ambiente surreale dove nani e storpi, androgini ed ermafroditi ricordano Arcimboldo, Velasquez e Manet, Joel-Peter Witkin pronuncia il suo testamento artistico. Al Pan di Napoli “Il maestro dei suoi maestri” presenta 55 opere dense di citazioni formali in cui mescola i grandi nomi della storia della fotografia come Muybridge, Rejlander e HollandDay con la scultura greca e romana, con l’arte barocca, neoclassica e moderna (fino al 20 ottobre). Le composizioni dell’artista newyorkese sono affollate da prodigi fisici di ogni genere, gobbi, transessuali non operati, chiunque con un gemello parassita, gemelli che dividono lo stesso braccio o la stessa gamba, ciclopi, persone con code, corna, ali, pinne, artigli, piedi invertiti o arti elefantiaci. Chiunque con braccia, gambe, occhi, seni, orecchie, nasi o labbra supplementari. Persone con genitali insolitamente grandi. Padroni e schiavi. Donne dalla pelle lesionata e anoressici senza capelli. Scheletri umani e umani puntaspilli.

Tutto l’infinito genere del grottesco e dell’assurdo è presentato da Witkin in composizioni che rivisitano i temi della mitologia occidentale, i capolavori della tradizione artistica europea e la rappresentazione canonica del corpo umano. La nudità si svela nelle opere dell’artista americano palesando la dominanza erotica, la sofferenza, il piacere. Ma è il decadimento e la morte a prevalere sulla mostruosità dei soggetti che a tratti, non di rado, sfiorano il disgusto. Quelli di Witkin sono tableaux mourants, copertine macabre dove la morte finisce per far parte della vita, pezzi d’autore in cui la crocifissione si alterna ad una foto che parla di Alice nel paese delle meraviglie. Così, all’ennesima opera, il ribrezzo lascia il passo alla considerazione estetica sulla composizione, al modo in cui le frattaglie evocano Mirò o Velasquez, alla sua arte oscura, quella stessa che Witkin celebra nelle stanze del Pan. «Penso che la ricerca della verità, del bene e della bellezza ci definisca come esseri umani. Tutta la grande arte dimostra come abbiamo santificato oppure abusato di questi principi morali della vita. Purtroppo la maggior parte dell’arte creata oggi non ha uno scopo perché non è basata su ciò che ci definisce, che ci eleva in quanto esseri umani. Invece l’arte vera, la grande arte, quella per cui io vivo, quella alla quale ho dedicato la mia vita non è concepita per un guadagno ma serve a curare lo spirito. La grande arte ci sorprende perché possiede quella profondità spirituale che ci porta a trasferire a livello di coscienza una forma fisica unica che viene trasformata in colui che la guarda in vero spirito, cuore, materia, anima».
Il criterio di bellezza a cui fa riferimento è ben lontano dai canoni rinascimentali, è un criterio che attiene ad una dimensione artistica altra, una fascinazione per la repulsione che ben ricorda la sindrome di Stoccolma. La bellezza di Witkin è in Prudence, 1996, una stravagante giovane donna nuda in guanti neri, ma è anche in Leda, 1986, una rachitica drag queen di Las Vegas. La grandezza di Witkin è quella di essere ritrattista di condizioni esistenziali, biografo di uomini che conversano con l’infinito.

I suoi assemblages provocatori sono versioni contemporanee della tradizione medievale del memento mori, clausole che suggellano l’inevitabilità della morte, perché l’artista è consapevole della santità che proviene dalla sofferenza che porta alla fine. È il cuore della sua arte. Molte delle sue fotografie rievocano, non a caso, il momento topico della Passione di Cristo: istintivamente repulsive e caotiche le immagini contribuiscono a creare un teatro del sacrificio in cui si specchiano momenti di vita comune. Capire Witkin non richiede coraggio ma accettazione passiva, perché il mondo miserabile che ritrae è urlato al di là di ogni tolleranza. Come cattolico Witkin riconosce il peccato come peccato, una scelta dalle conseguenze eterne. («Hell is made for priests who have the power to elevate the Sacred Host, then with the same hands enter the bodies of children». Priest Pederast, 2009). Il paradiso è una questione aperta che dipende dal modo in cui abbiamo vissuto, per secoli la cultura ha smesso di considerare questo rischio. «Il diavolo non è semplicemente un problema da risolvere, ma un mistero da sopportare». È una fede possente a guidarlo nelle piccole scelte morali che affollano i suoi quadri, a prefigurare ad esempio un futuro in cui i transessuali guideranno il mondo (Prom Foto, Bogota, 2008). L’elevata elaborazione delle immagini, che rende le sue fotografie universalmente identificabili, passa da artifici manuali che vanno dal graffio allo strappo dei negativi, dall’utilizzo di filtri a varie tipologie di ostacoli tra il supporto e l’ingranditore. Un lavoro certosino che non contempla la possibilità di uscire dalla camera oscura prima di aver raggiunto la perfezione formale. Non demandare questa parte della produzione a uno stampatore è una sfida alla secolarizzazione fotografica, ma per l’artista il processo materiale della creazione è di capitale importanza. Quello che Witkin inchioda alla parete è certamente un soggetto ma è anche vera essenza della fotografia. Prima di andar via “Il maestro dei suoi maestri” termina il suo lascito, solenne, più di come lo aveva iniziato, «Per comprendere il mio lavoro chi guarda accetta di entrare in un mondo di meraviglie, un universo che è temporale e atemporale, un universo di speranza e di dolore, per trovarsi di fronte alle altezze massime e agli abissi più profondi. Il soggetto delle mie opere è l’animo umano e concepisco le mie opere per il bene degli uomini e per la gloria di Dio».

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