La lunga marcia dell’Outsider Art

di - 4 Ottobre 2016
L’Outsider Art è tra fenomeni artistici del momento. Una notorietà per niente immeritata a giudicare dagli eventi, dai protagonisti e dalla qualità delle opere che sotto quel nome si raggruppano. Una sperimentazione polimorfica, che il più delle volte trascende il simbolo per adeguarsi al segno, e anche quando adopera iconografie condivise (sessuali, sociali, religiose, ecc.) le reinventa in modo originale, rendendole di fatto estranee ad ogni vicenda preordinata, come solo la mente di un folle (o puro?) può partorire. Di strada ne è stata percorsa in termini di riconoscibilità e valorizzazione da quel 1945, anno in cui Jean Dubuffet coniò l’espressione “Art Brut” (arte grezza) catalizzando per la prima volta l’attenzione degli specialisti sul genere, prevalentemente pittura e scultura prodotta da emarginati e malati psichici. Sono nati allora sul piano storico-critico gli outsiders, artisti estranei ai meccanismi del sistema ai quali però è possibile riconoscere quello che Berenson ha definito “senso della qualità”. Visionari, illetterati, eccentrici, animati da una vocazione spontanea e insopprimibile, incuranti dell’indifferenza o della disapprovazione del proprio contesto sociale e familiare.

Una storia quella dell’Outsider Art che va avanti da oltre un secolo, che muove i primi passi sul finire del XIX secolo (quando iniziano a farsi strada i primi esperimenti di arte-terapia), che conosce un impulso decisivo con la nascita delle avanguardie e l’acuirsi della crisi esistenzialista e che prosegue a ritmi incessanti nel secondo dopoguerra con l’apertura della Collection de l’Art Brut di Losanna (nata nel 1974 dalla raccolta di artisti irregolari di Dubuffet) e di molti ateliers assistiti, in cui gli artisti ancora oggi hanno la possibilità di sviluppare un loro personale linguaggio. Gli eventi, tuttavia, si sono intensificati in modo esponenziale soprattutto in tempi recenti con il proliferare ad ogni latitudine di mostre (tra queste la fondamentale “Insania Pingens”, curata nel 1961 a Berna da Harald Szeeman, evento apripista per gli studi sull’arte irregolare, e la più recente “Banditi dell’arte”, allestita nel 2013 nell’Halle Saint-Pierre di Parigi, la prima sistematica ricognizione dell’arte irregolare italiana) e musei specificatamente dedicati  (bastino per tutti gli esempi del Museum Gugging di Vienna, della Kunsthaus Kannen di Münster, della Collezione Hans Prinzhorn nella clinica psichiatrica dell’Università di Heidelberg, dell’Art&Marges Museum di Bruxelles). Tra gli studiosi c’è anche chi ha avanzato l’ipotesi di una ricerca sistematica delle interconnessioni formali fra le scoperte degli artisti d’avanguardia (e non solo) e le immagini spontaneamente scaturite da certi deliri al fine di far emergere una sorta di alfabeto visivo archetipico, un inedito pathosformel, per dirla con Warburg, in grado di decifrare la malattia mentale e superarne gli ostacoli.

Al dialogo non si è sottratta l’Italia dove, tra l’altro, sono nati gli osservatorio Outsider Art dell’Università di Palermo e dell’Accademia di Belle Arti di Verona, conferma e attestazione dell’interesse accademico per il fenomeno, sempre più legittimato. Esempi virtuosi di analisi e ricognizione preceduti dagli studi e dalle mostre di Bianca Tosatti, studiosa di primo livello dell’arte irregolare, nonché dimissionaria direttrice del MAI, Museo di Arte Irregolare di Sospiro (Cremona), chiuso nel 2015, con generale rammarico, dopo appena quindici mesi di attività. Un museo nato nel 2013, anno della glorificazione massima del fenomeno, giunta, com’è noto, con la LV Biennale di Venezia, dove Massimiliano Gioni nel suo encomiabile ma utopico tentativo enciclopedico ha raccolto esperienze eterogenee, molte sconosciute o note solo in contesti localistici, accomunate da visionarietà, polimorfismo e fare sorgivo. Un vero e proprio suggello alla riconoscibilità dell’arte irregolare, che a sorpresa (ma neanche troppo) ha conquistato il palcoscenico dell’arte planetaria, ottenendo legittimazione sul piano critico e finanche economico.

Ultimo tassello in ordine di tempo di questa storia secolare è la mostra “Nasi odorano tulipani” (fino al 21 gennaio 2017), allestita negli spazi Art Forum Würth di Capena, piccolo centro della provincia romana, unica sede italiana della multinazionale tedesca. La rassegna, sistemata nei due piani dello spazio espositivo del vasto stabilimento industriale, presenta al pubblico i pezzi di arte alienata più belli della collezione Würth, composta da oltre 16.000 opere d’arte, prevalentemente contemporanee, di autori consacrati e non, raccolte da Carmen e Reinhold Würth, impegnati da anni nell’integrazione dei diversamente abili e nella promozione del dialogo tra Out- ed Insider-Art. Lavori originati dalla solitudine e da impulsi creativi puri e autentici, fuori dalla cultura artistica ufficiale, che non nascono da tecniche e modelli predeterminati ma da vocabolari propri, lontani dall’innocuo decorativismo naif e dal bieco convenzionalismo della pittura dilettante. Oltre trenta lavori (tra dipinti, disegni e sculture), tutti eseguiti tra il 1996 e il 2004, rappresentativi di più di venti artisti, tra i quali Helmut Widmaier (1927- 2011), Walburga Brai (1943), Gisela Doermer (1940 – 2005), Dieter Jürgen (1944), Marcus Zietsch (1965) e Georg Würz (1951), molti dei quali attivi in ateliers assistiti in Germania, spazi di concentrazione e complicità nei quali gli artisti lavorano gomito a gomito dando forme sensibili al proprio mondo.

A segnare l’incipit della mostra è l’omonima opera di Uwe Kächele (1963). L’odore dei tulipani ha fornito all’artista l’ispirazione per tracciare su carta giocosi personaggi in posizione frontale, definiti da spessi segni neri e bianchi e da campiture piatte e sature. Il risultato estetico è oltre ogni aspettativa: una composizione affascinante ed equilibrata, all’apparenza debitrice della primordiale energia dell’arte africana, degli accordi-contrasti dei fauve e della conturbante immaginazione degli espressionisti tedeschi. Il percorso prosegue, tra gli altri, con il favolistico bestiario di Joachim Hepler (1962) e Hartmut Winter (1962), a metà tra installazioni artistiche e oggetti di design, imparentabili all’immaginario dubuffettiano, e i lavori oggettuali di Martin Udo Koch (1965), sculture a parete in cui l’artista ha recuperato gli scarti della società dei consumi, consegnando loro un nuovo valore etico ed estetico. È un’energia potenziale, controllata ma esplosiva, quella che invece emerge dal lavoro pittorico di Harald Schulth (1956), rintracciabile nel contrasto cromatico tra lo sfondo rosso e la forma stilizzata e biomorfa, resa con una spessa linea nera. Scendendo al piano inferiore colpiscono per originalità e forza espressiva le sculture lignee di Michael Kuthe (1970), simili a costruzioni lego, riformulative di iconografie condivise come il Drago e la Crocifissione e rivelatrici di una visionarietà fuori dal comune. Non meno apprezzabili sono Nei, Jä di David Christenheit (1972), in cui è evidente la conoscenza del linguaggio fumettistico, e i disegni di Rosemarie Hüber che, con tratto infantile e una rara sensibilità cromatica, traccia un pavone e delle ballerine come fossero mosaici variopinti.
Nella varietà degli immaginari, dei vissuti, dei soggetti, degli stili e delle tecniche, emergono in mostra risultati estetici originali, alcuni dei quali consacrati dalla partecipazione a diverse esposizioni europee, non necessariamente dedicate esclusivamente all’arte irregolare, ulteriore segnale di una legittimazione capace di travalicare gli specifici e forse ristretti confini del genere. Ciascuno degli artisti con i propri disegni e i propri strumenti ha creato opere non convenzionali, mitologie figurative originali, mondi magici da opporre alla miseria e allo smarrimento della quotidianità, fino a regalarci un universo ricreato, energico e prefigurativo.
Carmelo Cipriani

Nato a Terlizzi nel 1980, è giornalista, critico d’arte e curatore indipendente. Dopo la laurea in Conservazione dei Beni Culturali presso l'Università degli Studi di Lecce, si perfeziona sull'Arte del Novecento all'Università degli Studi di Bari. Già cultore della materia in Museologia presso l’Università degli Studi della Calabria e docente a contratto presso l’Accademia di Belle Arti di Vibo Valentia, ha condotto studi specialistici e curato mostre per Soprintendenze, istituzioni e musei.  

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