L’architettura è un fatto politico

di - 28 Novembre 2014
Rem Koolhaas ha dimostrato ancora una volta la sua capacità di costruire attorno a sé un’aura di adorazione pari a quella che si riserva a uno stregone nelle società primitive. La sua riflessione realista sui dispositivi è stata superata a destra dagli eventi, data la sfumatura giudiziaria che l’inaugurazione aveva assunto. Eppure la Biennale ha dimostrato capacità di assorbimento, capacità di visione e ha realizzato con questa durata così lunga una fortissima scommessa per il futuro, assumendo in qualche maniera anche il ruolo di unica istituzione in grado di costruire pensiero in un tessuto politico conflittuale e opaco.
La prima delle conversazioni, dedicata al tema “1914-2014: Absorbing Modernity”, aveva un finale scontato; la seconda dedicata agli “Elements” e a “MondItalia”, è sembrata anche quella più cara al direttore e si è rivelata più interessante; a parte il finale scontato, in cui Koolhaas ha cercato disperatamente di fare ridire ai curatori nazionali che la modernità ha vinto, e in cui ha cercato di convincere i giovani architetti di “MondItalia” che l’Italia non è un caso particolare, ma un caso generico di un Paese di periferia alle prese con una trasformazione globalizzante, come la Corea del Nord e del Sud, – che per la prima volta hanno lavorato insieme, sottolinea il direttore – forse è alle parole del presidente Paolo Baratta e al suo operato più ampio che bisogna guardare per capire il significato vero di questa Biennale e il suo ruolo anche storico, e per capire anche il senso generale dell’operato del direttore, ovvero la celebrazione paradossale del generico. E a celebrare il generico sono gli archivi, con il Leone d’Oro a Phyllis Lambert, fondatrice del CCA di Montréal; gli archivi sono anche l’unico strumento critico a disposizione di chi voglia orientarsi nel paesaggio generico, senza soluzione di continuità, dove tutto è accessibile, a patto di conformarsi alle condizioni dell’accesso.

La conclusione della Biennale di Architettura, infatti, coincide non per caso con una riflessione sul significato e sul senso degli archivi, tenuta nella sede dell’ Archivio Storico Arti Contemporanee della Biennale lo scorso 7 novembre, dal titolo “L’Archivio, il digitale e la formazione al tempo del digitale”. Questa riflessione attraverserà anche la Biennale di Arti visive e se vogliamo è una profonda revisione del significato dell’istituzione Biennale, che vuole riprendersi il ruolo di predominanza nel sistema culturale internazionale senza farsi spaventare dal tempo, dal suo vecchio formato, dalle divisioni in nazioni che sembrano non più riflettere la geopolitica del mondo contemporaneo, e senza rifiutare il cambiamento dovuto alle nuove tecnologie imposto alla natura degli archivi. Dagli anni Novanta in poi, il ruolo del curatore si è evoluto da quello dell’artista-curatore, come era stato per Harald Szeemann, passando per l’indagine sui limiti della ragione storicista di Bice Kuriger, a quello di un artista-archivista-curatore, come è stato per Massimiliano Gioni, la cui collezione sterminata di oggetti e soggetti restituiva una immagine della Biennale e degli archivi del contemporaneo come un grande inconscio della società, con una figura curatoriale in grado di ri-narrarli. A una ri-narrazione di sé si sta preparando la Biennale, di cui MondItalia, più degli “Elements” e di “Absorbing Modernity”, è stato una prova generale. Con tutte le code del caso, tra cui quello dell’autorialità di eventi collettivi e autoprodotti. La critica al populismo e al conformismo culturale proposta dalla messa in scena degli archivi apre dunque alla riformulazione della figura e della funzione strategica dell’autore.
A intervenire alla conferenza all’Archivio dell’Arsenale, tra gli altri, era invitato il direttore dell’Unità di Scienze digitali dell’Unione Europea, Ralph Dum, la cui biografia ha inscritto un programma politico non da poco. Un matematico, con un passato recente di broker finanziario e investitore in hedge funds, che dopo essersi occupato di modelli matematici di simulazione si è dedicato al dialogo fra scienze politiche e scienze naturali. Forse basta questo.
Mentre gli “Elements” sono stati una grande provocazione e anche un modo per fare sponsorizzare la Biennale da produttori di elementi costruttivi, mostrando la mancanza di efficacia sia della ricerca solo teorica sia della progettazione tradizionale rispetto alla pervasività delle tecnologie elettroniche, il dispositivo mediatico messo in atto da Re(m) Koolhaas  con “MondItalia” e “Absorbing Modernity” ha regalato alla Biennale una accumulazione di archivi la cui natura multimediale, la cui quantità e estensione è quasi la replica del mondo conosciuto. E la Biennale vuole e sta rispondendo a questa sfida, cambiando completamente il proprio formato, i propri supporti, il proprio modo di fare cultura. Il presidente Baratta ha ribadito il coraggio dell’operazione MondItalia, di presentare il generico a partire dal particolare doloroso della condizione italiana attuale, senza nasconderne tutte le contraddizioni. Del resto il paradigma era il confessionale del grande fratello, con la grande confessione – pianosequenza peripatetica di Stefano Boeri prigioniero come Dedalo nel labirinto di vetro della sua Maddalena, il confessionale vincitore di MondItalia con l’Italia berlusconiana che si confessa.

Eppure come tutte le confessioni, queste sembrano una contenere una autoassoluzione. Il disastro italiano, è un disastro per chi? E se è un disastro, cosa che dipende dai soggetti colpiti e non riguarda tutti, è veramente tutto colpa di Berlusconi? Ma siamo sicuri? Allora perché ce lo siamo tenuto tanto stretto per venti anni, con misure garantiste di tutti i tipi, dalle televisioni, ai monopoli editoriali, passando per i rinvii a giudizio e per le ultime e recenti odi all’accordo di Renzi? E se Berlusconi fosse solo l’ennesimo capro espiatorio di un paese che cambia tutto per non cambiare nulla? Gli ultimi e recenti dibattiti su territorio, consumo di suolo e tecnologia sostenibile sembrano non aver assorbito Elements, e forse questa è una specificità italiana. E diversamente da quanto dichiarato, l’interesse di Koolhaas per la singolarità della condizione italiana è risultato enorme. Ancora un paradosso di quelli che rendono così interessante questa Biennale, che sembra essere il fantasma rovesciato della Strada Novissima che aveva aperto la prima delle Biennali di Architettura.
L’invito che Re(m) Koolhaas ha rivolto ai (non più) giovani architetti dei MondItalia è duplice, stare al gioco consapevoli dei rischi e cercando di cambiare le cose.
Bene, la sfida del realismo è aperta, e si rivela molto meno scontata del finale generico annunciato da Koolhaas per trovare una razionalizzazione quasi pari a una rimozione psicoanalitica di tutto quello che in questi sei mesi è successo, e non solo in Italia.

Ha collaborato con Duel, Duellanti, D’Architettura scrivendo di spazio e arte. Collabora con Exibart dopo aver pubblicamente richiesto a Germano Celant di firmare una dichiarazione che ripetesse le sue parole “Ragazzi, l’arte, in fondo, è artigianato”. La richiesta non è stata esaudita. Ha inoltre studiato presso l’Università IUAV di Venezia, dove ha seguito il laboratorio di Joseph Kosuth e ha conseguito un dottorato in Urbanistica nel 2012, dopo un periodo di studi negli Stati Uniti presso la UMBC di Baltimora e la New School di New York. Svolge attività didattica e di ricerca all’Università IUAV. Fra i suoi testi, Corridoi. La linea in Occidente, Quodlibet, Macerata 2014.

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