L’arte dello sport | giocato con Fair play

di - 1 Novembre 2014
Non è mai solo sport. Lo sappiamo bene nell’età contemporanea in cui ogni azione è trasformata in evento dall’occhio attento di una molteplicità di media, cui corrispondono altrettanti aspetti economici e sociali. Lo sottolineano le due curatrici della mostra: Cristiana Perrella richiama significativamente La società dello spettacolo di Guy Debord per spiegare che «la dimensione spettacolare accompagna lo sport sin dai suoi albori». Paola Ugolini pone al centro la visione del corpo, nello sport come nell’arte e nello spettacolo, in quanto «mai come oggi strumento di straordinaria potenza e perfezione», «oggetto estetico e strumento sociale».
Le regole della comunicazione e perfino quelle della fisicità umana possono essere sovvertite dall’arte, utilizzando in modo sorprendente il video, che è il medium naturalmente atto a rappresentare il movimento. A tal fine è stata formata una vera e propria squadra di 18 artisti, diversi per generazione, nazionalità e ruolo giocato in questa mostra. Promossa dal Dipartimento per gli affari regionali, le autonomie e lo sport nell’ambito del semestre della Presidenza italiana dell’Unione Europea, “Fair Play” è stata inaugurata in occasione del Consiglio informale dei Ministri dello sport dell’UE ed è visitabile fino al 9 novembre, con ingresso libero (chiusa il lunedì).

Siamo in Italia e lo sport viene identificato prevalentemente con il calcio, a sua volta personificato in atleti diventati icone e quasi eroi. Zidane: A 21st Century Portrait punta 17 telecamere a fare pressing sul grande giocatore francese, rendendolo unico protagonista di  una partita qualunque, giocata nel 2005 tra Real Madrid e Villarreal, ma in questo modo resa memorabile. Il sudore, lo sguardo, più dei muscoli e dello scatto atletico, vengono ripresi da Philippe Parreno e Douglas Gordon, diluendoli nell’atmosfera rarefatta della colonna sonora post-rock dei Mogwai. L’opera viene presentata nel Corner D con una installazione: 18 schermi riproducono gli originari 17 punti di vista e quello globale del filmato finale.
Nello Spazio D si entra nella parte collettiva della mostra, creata come un mosaico di immagini immerse nel buio di un’unica sala, dove l’audioguida dà voce ad ogni video a cui ci si avvicina. Al centro sono schierati gli imponenti maxischermi che contrappongono i momenti di aggregazione a quelli di sfida personale e sociale. Vuoti e pieni si alternano nella rappresentazione del cuore della ritualità sportiva, lo stadio. L’esplosione di ritmo e colori del Maracanà di Rio de Janeiro fa apparire come un’unica grande bandiera la folla ritratta nell’opera di Stephen Dean, Volta, ovvero “curva” in portoghese. Diventa invece una galassia rotante scrutata in lontananza, lo stadio ripreso da Grazia Toderi che lo descrive «chiuso da mura, come una città medievale, ma aperto verso il cielo». Dalla coralità si passa alla contraddittorietà della società, di cui lo sport si fa metafora e possibilità di superamento. In Bouncing Skull, Paolo Canevari filma la familiare scena di un ragazzino che palleggia, trasportandola a Belgrado, tra le macerie della guerra: solo dopo alcuni tiri il pallone si rivela essere un teschio. Un gioco con la morte che la condizione umana vive quotidianamente, rappresentato con l’innocenza dell’infanzia di fronte alla guerra. La differenza di genere e la vulnerabilità del corpo femminile vengono interpretate in prima persona da Salla Tykkä, nel video di uno scontro di boxe, Power, dove si batte a seno nudo contro un uomo coperto e dunque protetto da una maglietta. Il bianco e nero dell’immagine accentua la contrapposizione, resa più dolce solo dal motivo di Rocky, canticchiato in sottofondo dalla ragazza.

La sfida individuale, la dilatazione dei tempi e la ciclicità dei percorsi dominano il video di Guido Van Der Werve, impegnato in una corsa continua attorno alla sua abitazione, e l’opera di Marzia Migliora. Il suo filmato, Forever Overhead, prende il suggestivo titolo dal racconto di David Foster Wallace e si ispira alla raffigurazione presente sulla Tomba del tuffatore di Paestum: il momento in cui il corpo è “per sempre lassù”, sospeso dopo il salto, è la metafora del passaggio da una fase all’altra della vita. L’artista filma il nuotatore nella parabola del tuffo, mentre si libra e si confonde tra le immagini di atleti dell’età classica, rappresentati sulle pareti della piscina, divenendo gesto e aspirazione all’assoluto.
A bordo campo si collocano opere che illustrano paradossi e singolari imprese sportive, come la sovraesposizione muscolare dei culturisti tesi e un po’ ghignanti ritratti da Ali Kazma; il video simile ad un servizio televisivo girato da Christian Jankowski, dove i campioni polacchi di sollevamento pesi alzano simbolicamente monumenti storici, carichi di memoria; la palestra allestita come uno spazio domestico rappresentata da Nilbar Güreş; il gioco senza squadre né regole dei danzatori ripresi da Uri Tzaig. Ironia e fantasia animano le opere di Robin Rhode, Roman Signer, Mark Bradford e Florian Slotawa, impegnati anche come protagonisti dei loro video.

Toccanti le testimonianze rese da due artiste sul significato più profondo dello sport, come esercizio di forza prima di tutto mentale. In Horizontal Standing, Hilla Ben Ari fissa il suo sguardo su una ginnasta mutilata che si mantiene in equilibrio sulla trave, con un tremore appena percettibile a rivelarne lo sforzo. Sembra un fermo immagine, ma è solo ferma volontà. Annika Larsson riprende una partita di calcio, giocata in Germania, di notte, da due squadre di non vedenti: i movimenti sono naturali e sul viso dei calciatori risalta l’intuizione dell’atleta.
Questa mostra inserisce l’arte come «terzo tempo», «momento di inciampo» tra lo sport e il video, restituendo al visitatore non più un prodotto confezionato dalla società dello spettacolo, ma una nuova visione – pur sempre spettacolare – dello sport. Finalmente umano, troppo umano.

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