Negli anni ’70 gli architetti pensarono di poter creare nel nulla degli alveari per essere umani e, purtroppo, lo fecero. Nacquero così quelli che noi oggi definiamo “eco-mostri” come il Corviale nella periferia di Roma, una sorta di serpente di cemento armato che ha tagliato i declivi ancora semi selvaggi della campagna per un chilometro. Paolo Fiorentino che progettò quel luogo forse credeva davvero che l’umanità stipata in quegli appartamentini senz’anima sarebbe stata felice.
A Palermo lo ZEN (acronimo di Zona Espansione Nord) è stato un progetto grandioso, uscito dalla matita di Vittorio Gregotti, che però era già vecchio e fatiscente ancora prima che fosse terminato, ma si sa in Sicilia è difficile realizzare qualcosa perché c’è la mafia, scusa buona e potente per non fare o drammatica verità. A Napoli, dove invece imperversa la Camorra e quindi è impossibile “fare” alcunché, il progetto di costruire una utopistica città dormitorio fu affidato ad un “poeta del cemento armato” (così è definito oggi dai suoi colleghi) Franz di Salvo. Le Vele, realizzate a Scampia tra il 1962 e il 1975, prendono il nome dalla loro forma triangolare che ricorda appunto quella di una vela, larga alla base e che va restringendosi man mano che si va verso i piani superiori.
Nonostante tutto, le sette vele restano l’opera realizzata che meglio rappresenta la poetica architettonica di Di Salvo e sono il tragico monumento di quella che era “una nuova maniera di pensare” l’edilizia popolare. Ispirandosi ai princìpi delle unités d’habitations di Le Corbusier, alle strutture «a cavalletto» proposte da Kenzo Tange e più in generale ai modelli macrostrutturali, Di Salvo articolò l’impianto del rione su due tipi edilizi: a «torre» e a «tenda». Quest’ultimo tipo, che imprime l’immagine predominante del complesso delle Vele, è contraddistinto (in sezione) dall’accostamento di due corpi di fabbrica lamellari inclinati, separati da un grande vuoto centrale attraversato dai lunghi ballatoi, molto in stile carcere federale americano, sospesi ad un’altezza intermedia rispetto alle quote degli alloggi.
Questo è l’inferno contemporaneo, o meglio l’utopia abitativa abortita, scelto dal giovane artista tedesco, Tobias Zielony (1973), chiamato nel 2010 dalla gallerista Lia Rumma a realizzare un lavoro fotografico site-specific su Napoli. Per la prima volta Zielony accantona la sua ricerca sui tipi umani, in genere i giovani che abitano le periferie urbane, per concentrarsi sull’incredibile intreccio di scale e piani che fanno di Scampia il monumento antiurbano e antisociale per eccellenza e immortalato anche dall’asciutta macchina da presa di Matteo Garrone per Gomorra.
Come una sorta di Zigurrat futuribile, o meglio come una nave spaziale aliena appoggiata in mezzo al nulla e abbandonata dal suo equipaggio, i piani di cemento armato ormai scrostati si intersecano inutilmente, le scale e i ballatoi di ferro nero visti dal basso ricordano più casa circondariale che un luogo possibile per vivere. L’arte, qui come ultimo strumento di salvezza, indaga le pieghe più tristi del reale dando una nuova dignità estetica allo squallore urbano.
Può l’arte salvare il mondo? Certamente lo può migliorare, può veicolare e parcellizzare anche le realtà a noi più lontane come ha fatto Mohamed Bourouissa che con Tobias Zielony è il protagonista di questa interessante mostra inaugurata ieri al MAXXI sul concetto di riciclo architettonico e periferia urbana dal titolo “Peripheral Stages”.
Bourouissa algerino e residente a Parigi, indaga da anni i volti e i riti delle tribù umane ghettizzate nelle banlieues di Parigi ma in questo nuovo lavoro c’è un evidente scatto evolutivo, i sei grandi light box intitolati “SCREENS” (schermi) hanno come soggetti solo le superfici frantumate di schermi televisivi che simbolicamente sembrano rappresentare la tragica frantumazione concreta di un sogno indotto, ovvero la fine della menzogna mediatica. Toccante per forza espressiva e raffinatezza estetica il video Temps mort che documenta un anno di scambio di telefonate e mms con un suo conoscente carcerato. L’immagine è forte, il contesto più che reale e la resa visiva è totalmente “arte”, le immagini scorrono come fossero tanti frame sgranati e macropixellizzati, in cui una sorta di maxxi-pointillisme estetizza l’immagine senza farle perdere forza. Arte e realtà, arte e degrado, arte come riscatto sociale, arte come arma da usare con forza per salvare il mondo dalla bruttezza e quindi dalla sua fine.
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