Una grande vasca, in cui rinascere, in cui liberarsi. Il mito che diviene sacramento, l’acqua che da elemento biologico, di vita si trasforma in strumento di purificazione e salvezza spirituale. Almeno un tempo, quando le mura del Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore a Napoli erano attraversate da novizi, studiosi e alti rappresentanti dell’ordine domenicano. Adesso, quella mura sono silenziose, buie e non riecheggiano più come un tempo di preghiere e lectio dell’ordine del santo di Guzman. Eppure, quel rito di passaggio, come il suo elemento cardine, l’acqua, che può sia abbeverare che soffocare, sia salvare che travolgere, torna al centro del convento grazie a “Il Battesimo”, la light box dell’artista Monica Marioni, che accoglie e conclude visivamente la tappa di Napoli per il progetto #Lasciamiandare. E se un tempo in gioco vi era la salvezza divina e spirituale, questa volta la posta in gioco è la propria liberazione interiore, il proprio dolore che diviene energia, spinta verso il superamento di ogni costrizione, violenza, brutalità a cui il mondo spesso ci sottopone. «L’arte è salvifica, io stessa sono una sopravvissuta: ecco perché voglio aiutare le donne vittime di violenza».
Così, l’oscurità delle sale dell’ex refettorio amplificano l’incanto di una danza marina, di un corpo che ondeggia tra le vesti e i pensieri dolorosi, abbandonati, lavati grazie al liquido che torna ad essere amniotico, rigenerante e nutriente. A cura di Maria Savarese, in collaborazione con Maria Rosa Sossai e Igor Zanti e con contributo dello psicologo Stefano Di Carlo, il percorso della mostra prevede una serie di tappe, di momenti scanditi da otto monitor che indicano un movimento interiore ora doloroso, lottato e costretto tra mura o sguardi invadenti, ora leggero e disincantato, come una danza sulla spiaggia o una promenade per una qualunque via di una città d’arte.
Appare evidente, inoltre, la linea narrativa dell’installazione, tracciata a partire dalla toccante performance “La Preda”, in cui l’artista, attraverso movimenti a metà tra il selvaggio, il brutale e il coreografico, esprimendo una consapevolezza fisica, tragica del dolore e della schiavitù interiore, si pone alla volta di un percorso positivo di rigenerazione e speranza. Tuttavia rimane comunque ineludibile e irrimediabile, anche per la potenze di questi due momenti archetipici – la nascita e la sottomissione – una dimensione bipolare, a pendolo, di tutta la nostra esistenza. Divisa da continui scambi tra oppressione e libertà, fede e abbattimento, creatività e oscurità. Un gioco delle forme e dei contrasti perfettamente riusciti tra le colonne, le celle, le sale, i silenzi e il buio del convento e la bellezza e la grazia dell’arte.
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