Il MAST, questa volta, lo fa in video. Per lâesattezza sono diciotto, di quattordici artisti differenti, per provenienza geografica e per poetica, anche se la tematica è sempre la stessa: il lavoro e la sua percezione, tra chi lo produce, chi lo osserva  e la societĂ in cui si sviluppa.
Ed è da questi presupposti che è nata la mostra âLavoro in Movimentoâ che fino al 17 aprile accompagnerĂ i visitatori della Fondazione creata da Isabella Seragnoli a Bologna.
âMediante lâinterpretazione filmata della realtĂ , lo sguardo della telecamera testimonia la mutabilitĂ di un mondo â quello del lavoro e della produzione â in rapida metamorfosi, descrivendo in modo immediato e coinvolgente cambiamenti, evoluzioni e rottureâ, scrive nel catalogo il curatore Urs Stahel, che ha presentato lâesposizione lo scorso 25 gennaio in compagnia di alcuni artisti.
Ad aprire le danze un video lirico che va a braccetto con lâidea della percezione del momento produttivo, che in questo caso però è dato solo da uno sguardo esterno, e in un tempo passato: parliamo di Wille Doherty, che con la sua proiezione Empty, 2006, scandaglia in otto minuti la vita di un edificio in disuso, un tempo âcovoâ di uffici, nella periferia irlandese. Il grigio del cielo, i cambiamenti climatici, il selciato bagnato, i muri perimetrali, sono scanditi e alternati dalle lamiere blu che sovrastano il âbuildingâ, strappate della loro vernice originaria dal tempo che è passato, lasciando qui lâidea di un capitalismo fallito o reso improduttivo dallâavanzata tecnologica, a cui non tutte le realtĂ riescono a sopravvivere.
Di Yuri Ancarani, unico italiano presente in mostra, possiamo riscoprire la trilogia del lavoro, composta da Il Capo, ovvero unâabbacinante lettura dellâestrazione del marmo nelle cave del Monte Bettogli, in provincia di Carrara; Piattaforma Luna, sul lavoro di sei sommozzatori a cento metri di profonditĂ nel mare; Da Vinci, in cui un medico esegue unâintera operazione chirurgica tramite un braccio robotico che cattura le immagini dellâinterno del corpo. Senza dubbio fa un certo effetto vedere tutta riunita questa produzione che negli ultimi anni è stata promossa in lungo e in largo, ed è anche un modo per tracciare le somme: Il Capo, che per quindici minuti dĂ indicazioni precisissime tramite un linguaggio di segni a cavatori e conducenti di mezzi pesanti sugli strapiombi delle Alpi Apuane è sicuramente il piĂš bel ritratto del lavoro della trilogia. Una performance in una landa assolata e desolata, dove la polvere e il sudore diventano elementi inscindibili di una professione meticolosa, appartenente solo a una ristrettissima area geoeconomica. Un lavoro delicato e ancestrale sul filo di quella che sarĂ lâevoluzione del mercato del marmo.
Sincopato invece O.K. di Ali Kazma, video del 2010 in cui, attraverso un loop vorticoso riprodotto in sette schermi si mette in scena la timbratura di una serie di documenti. Ă Â lâuomo a fare il lavoro o è il lavoro ad appropriarsi dellâuomo, a snaturarne i gesti e a renderlo automa e automatico?
Ce lo racconta bene anche la mezzâora di film muto (con intervalli fotografici) di Chen Chien-Jen (in scena anche al MAXXI nella mostra âPlease come backâ), che racconta del declino di una fabbrica di Taiwan, e allo stesso tempo dei solidi rapporti personali costruiti tra le ex operaie: due figure che si ritrovano nello stabilimento abbandonato, replicando i gesti che avevano scandito la loro quotidianitĂ e che, in questo caso, assumono connotati al limite di una nevrosi: che senso ha rifare la stessa azione quando il contesto non lo richiede piĂš? A quale grado di assuefazione porta il lavoro? PerchĂŠ il lavoro muta il nostro corpo? PerchĂŠ gli è stato permesso? E in nome di quale âproduzioneâ?
A ben guardare, infatti, oltre alla fascinazione per la macchina e per lâintelligenza programmatrice dellâuomo câè che, molto spesso, il lavoro a cui ci si piega credendo di fare il bene della propria comunitĂ può provocare emorragie insanabili dallâaltra parte del mondo: Pieter Hugo ci porta ad Accra, Capitale del Ghana, dove nella piĂš grande discarica di rifiuti tecnologici del mondo â che arrivano per la maggior parte dellâEuropa â gli uomini bruciano computer, televisioni, cavi elettrici, cellulari e tutto lâarmamentario âindispensabileâ per la vita occidentale, per recuperarne rame, ottone, alluminio, zinco, con risultati per se stessi e per lâambiente circostante a dir poco pestilenziali.
Anche il resoconto che dĂ Ad Nuis dellâAzerbaijan è fortemente politico, infatti ci racconta come nel Paese con lâoleodotto piĂš lungo del mondo, lâidea di avere una ricchezza smisurata e inesauribile produce uno stile di vita che inevitabilmente andrĂ a scontrarsi con la finitudine delle energie non rinnovabili.
E poi Thomas Vroege che ci mostra gli spettrali manager della City londinese in metropolitana, con gli sguardi persi nel vuoto e forse ben consapevoli del loro ruolo, cosĂŹ come lo sono gli uomini dâaffari (o politici, o manager) che ci mostra Julika Rudelius nel video Rites of Passage: il potere qui viene passato di testimone alle generazioni piĂš giovani, e si mostra come seducente, Â e puro concetto vestito da leader, composto di slogan.
Unâesposizione che dimostra come il lavoro che si sceglie, che ci fa âdisporreâ dellâaltro, che si accetta, che si conquista, o si rifiuta, è ancora â questo sĂŹ â una dichiarazione dâintenti tra noi e il mondo.
Matteo Bergamini