L’onda infinita di Istanbul

di - 8 Settembre 2015
Kassel si è trasferita a Istanbul? Ma fare una Documenta distribuita nella città in una città come Istanbul, 22 milioni di abitanti e tutta un saliscendi, non è un azzardo? E lavorare sempre con gli stessi artisti non sarà un limite? E poi tutta questa fatica, perché?
C’è chi a Istanbul la Biennale di Carolyn Christov-Bakargiev proprio non è andata giù, e che magari rimpiange la Biennale, densa ma ordinata ed estremamente accessibile che Jens Hoffmann e Adriano Pedrosa misero in piedi quattro anni fa. Ma CCB è una curatrice sui generis. Che non seleziona, ma procede per aggregazioni e il suo lavoro assume l’aspetto di progressivi cerchi concentrici. Che ha in testa il rovello (più che la relazione) tra arte e processi mentali. Che vede nell’arte un modo per interrogare la realtà fino ai suoi livelli più nascosti, perché la relazione tra visibile e invisibile è ancora centrale. Che si domanda sulle possibilità cognitive e la vita degli oggetti, su quanto di misterioso questi trattengono al loro interno. Che ha messo il corpo al centro delle sue riflessioni. Che tra i suoi allies (alleati) ha confermato Pierre Huyghe che la pensa più o meno come lei, non preoccupandosi se la sua opera sarà visibile tra dieci anni o chissà quando perché intanto c’è la vita sotto il mare che va avanti al di là di noi. Che nell’origine dell’arte vede una possibile chiave di lettura dell’origine del mondo e viceversa. Che recupera quanto il femminismo ha prodotto in termini di non confini tra pubblico e privato. Che non vede quasi più confini perché il tutto fluttua e forse l’unica possibilità dell’arte oggi è immergersi in questo mare magnum. E fluttuare anch’essa.

Quindi, che piaccia o meno il catalogo è questo. E chi accusa stanchezza, déjà vu o altre meschinerie, chi preferisce la linearità assertiva di Okwui Enwezor piuttosto che la circolarità ondivaga di Christov-Barkagiev può starsene a casa o approfittare del soggiorno a Istanbul per farsi una vacanza.
Si perderà però qualcosa di prezioso. Come il film di Francis Alÿs, splendido artista umanista (sì, proprio umanista) che riporta alla visione il buco nero dell’Armenia (da queste parti si rischia molto a chiamarlo genocidio) attraverso la reciproca ricerca e l’incontro di alcuni ragazzi che usano un fischietto per richiamare gli uccelli, un tempo numerosi quando Ani, la città dove è ambientato il film, era bella e rigogliosa, e che ora è una terra abitata da ruderi. Che loro però fanno rivivere, misurandola (la misura umana), rincorrendosi, cercandosi e fischiando. Un po’ come, sempre Alys, aveva già fatto in REEL-UNREEL (ARROTOLARE-SROTOLARE, visto nella Documenta di Carolyn), filmando due ragazzini che ripercorrono le strade di Kabul giocando con la pellicola di un film, arrotolandola e srotolandola. Ecco che il corpo è la misura delle cose e forse, oggi, la possibilità di riscatto se le cose sono andate in malora. Ad Ani come a Kabul.
Dalla poetica umanista alla grande prova visionaria di Adrian Villar Rojas, di cui vi abbiamo già detto, e che a parecchi non è piaciuta. Certo, la sua scultura era più interessante quando era incompiuta, magnificamente sfaldata, informe e che pure suggeriva la forma. Ma lo zoo sopra il mare e sotto la casa di Trotsky è un’opera abbagliante, dove il mare e la luce fanno la loro parte, dove CCB ha trovato la location perfetta e dove Villar Rojas ha immaginato un mondo animale senza fine, archetipico, aggrovigliato e potente, che somiglia alla vita stessa. Per me, bellissimo!

Poi c’è un’altra prova poetica, quella di Walid Raad, che sa fare arte politica senza rinunciare all’arte. Stavolta ha intarsiato sulle casse dove si conservano le opere d’arte motivi artistici mediorientali, come se questi fossero più forti e proprio non ci stanno a starsene chiusi nelle casse. Le casse, composte come installazioni nella camera blindata di un ex banca, sono presenze solenni. E quanto a poesia non è da meno la terza parte della trilogia dell’egiziano Wael Shawky, The Cabaret Crusades, dove questa volta le marionette che raccontano secoli di scontri tra i fedeli e gli infedeli dell’epoca e tra i Cristiani stessi sono realizzate in vetro di Murano. Con bagliori e trasparenze che rischiarano un hammam del 15esimo secolo della città vecchia. Ma il vetro assume tonalità anche grottesche, materiale così nobile per raccontare guerre e congiure. Poi c’è l’ex Scuola greca, che ospita una mostra dove il tema dell’acqua ritorna soprattutto con la grande installazione di Anna Boghiguian, ma dove le altre opere, tutte dense, fanno scoprire artisti che non si trovano tanto facilmente in gallerie e musei.
Tutti i luoghi sono stati scelti da Carolyn Christov-Bakargiev con particolare cura, facendo respirare l’arte nel contatto con questa incredibile città che è Istanbul, dove è la città a fare la Biennale e non viceversa, perché le storie create dagli artisti e le storie dei luoghi si intrecciano come neanche a Kassel è stato possibile fare. E perché per creare una esperienza forte non c’è bisogno di statement forti (e non mantenuti) alla Enwezor, ma c’è bisogno di far sì che, in qualche modo, l’arte sia. E che di questa si indaghi un’origine che non sta solo nell’arte stessa ma nel vissuto, in quanto c’è di invisibile e apparentemente incomprensibile nell’idea di origine, che decompone e destruttura la stessa idea di origine. Operazione che avvicina Carolyn Christov-Bakargiev a Massimiliano Gioni e alla sua Biennale di Venezia di due anni fa, creando più che una linea curatoriale un vasto campo di ricerca, molto lontano da quello battuto da Enwezor. E, secondo me, molto più interessante.

E gli artisti sempre gli stessi, e allora? Noto un dettaglio, piuttosto: ci sono pochi giovani, alcuni anzi sono decisamente vecchi e altri sono addirittura morti, anche qui andando controcorrente rispetto al must del “giovane a tutti i costi” caro al mercato. Magari da spolpare e poi buttare. Altro dettaglio di un’ipotetica convergenza di Christov-Bakargiev e Gioni.  
Riconnettere i 35 luoghi e le esperienze, tra la musica di Theaster Gates, il faro di Lawrence Weiner i viaggi in mare alla ricerca dell’opera che non c’è di Huyghe, in cui questa Biennale si snoda è un’impresa impossibile. A meno che non la si prenda come una grande onda di acqua salata, dove si mischiano le immagini dell’arte, il sale (il sodio) che alimenta i nostri neuroni, quello della terra e quello delle lacrime, l’acqua che scorre insieme al sangue, passato e presente dei popoli che oltre il confine e dentro questo premono, migrano e spesso muoiono.  
C’è un luogo poi dove questa Biennale dovrebbe avere la sua espressione più completa: Istanbul Modern, il bel museo d’arte contemporanea della città. È qui che le metafore dell’acqua e del sale e il riferimento ambientale al Bosforo sono interpretate da artisti viventi con opere recenti e a volte scomparsi, ma anche da scrittori come Orhan Pamuk, scienziati come Darwin, rivoluzionari come Trotsky e psicoanalisti come Lacan, scelti da Christov-Bakargiev per dare corpo e immagine al suo tema, sconfinamenti che di nuovo l’avvicinano a Gioni. L’idea è che oggi i confini tra i vari saperi hanno poco senso e che tutto “fluttua”. Ma non è facile mantenere alto un discorso che si propone così ambiziosamente circolare.

A prima vista la mostra a Istanbul Modern appare come la parte meno riuscita dell’operazione. Il titolo, “Kanal/The Channel”, che allude alle connessioni che si instaurano tra esperienze e saperi diversi, e che trova espressione nelle forme tondeggianti, curvilinee di tante opere, sembra un po’ tirato per i capelli.
Ma un’analisi più attenta rivela invece che anche qui, oltre ad aver fatto uno sforzo di non poco conto per ricercare pezzi e artisti che potessero dare corpo all’idea, c’è un ulteriore sforzo intellettuale che tenta di promuove l’arte a linguaggio che dialoga a pieno diritto con linguaggi più solidi e più versati alla teorizzazione. Ecco, allora, che i cartoni preparatori del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo hanno senso che siano lì: Il Quarto Stato un’opera che, come la vedi, travolge lo sguardo come un’onda: di protesta, di popolo, di bisogno e di rivendicazione di futuro. Così come ha senso la scritta sinuosa, On the liberty, di Fabio Mauri o le foto di piante ed esseri viventi che dimostrano la creatività del mondo organico di Karl Blossefeldt. E torna, ma qui si gioca in casa, la Spiral Jetty di Robert Smithson, anche con gli studi preparatori che portarono l’artista americano a scegliere proprio il Salt Lake per realizzare la sua opera ambientale. E va da sé che le Forme del pensiero di Annie Besant, delicatamente aggrovigliate, c’entrano molto. Ma non è un artista, è stata una teosofa. Le pesanti sculture di Sonia Balassanian Silence of stones: grandi teste rotolate, teste monumentali che non parlano solo di caducità  o semplicemente massi –  sono invece una bella prova d’artista, e nel loro silenzio raccontano la memoria rimossa del popolo e del territorio armeno.

Qui, come del resto in altre sedie della Biennale, meno riuscite sono invece le opere che si appiattiscono sul tema del sale e più vicine a una scorciatoia appaiono le pitture che insistono sulla sinuosità, con linee e disegni concentrici. Non è il caso del consistente gruppo di pitture della popolazione australiana Yoingu, che raccontano le battaglie intraprese da questa etnia per dimostrare la conoscenza che avevano delle acque delle loro isole e ottenerne il riconoscimento dei diritti.
Il Kanal, come tutta la Biennale, è vasto e attraversato da molte presenze. Tra le quali ognuno, stanchezza e voglia permettendo, può trovare l’onda su cui surfare. Con la propria mente e il proprio sguardo.
Adriana Polveroni

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