Mai più mostre d’Arte Povera

di - 12 Luglio 2013
Sono nato esattamente 15 anni dopo la messa in atto di “Live in your head. When attitudes become form. Works – Concepts – Processes – Situations – Information”. E non avevo mai visto realmente l’Arte Povera. Mai prima di trovarmi al cospetto di “When Attitudes Become Form” alla Fondazione Prada di Venezia. Che ha spazzato via interi anni di frequentazioni di gallerie e rassegne che hanno usato “povero” come parola trainante. La mostra più chiacchierata della stagione è anche, indiscutibilmente, la mostra più forte. La mostra “impossibile” è anche la mostra dalla quale si impara, definitivamente, cosa sia un “ready made” e non un “remake”.
Perché il remake si può fare con il cinema, con risultati che spesso sono deludenti, e che si avvicinano invece, sempre, al concetto di “adattamento”. Forse è la parola “remake” stessa, visto che qui stiamo parlando di linguaggio, a non essere congeniale alle arti visive, ma solo a quelle applicate. Il remake è possibile con la forma di un oggetto, si può utilizzare per il design, tutt’al più con la fotografia. Ma non con le attitudini. E inoltre il remake ha a che fare con il multiplo, il ready made con l’unicum, nonostante la sua provenienza sia dalla moltiplicazione. Ecco perché “When Attitudes Become Form” non sarà mai un remake -nonostante Germano Celant usi la parola spesso, nella sua descrizione del progetto di mostra- ma un’appropriazione, non indebita, di un «idolo, un’immagine tanto sognata quanto spettrale […] di un avvenimento che ha raggiunto la dimensione postuma di un mito a cui le immagini fotografiche e l’immaginario artistico hanno eretto un monumento». Anche la parola “monumento” è una delle voci che serve, a mio avviso, per indagare -e apprezzare- questa mostra-scommessa. E per riportarla viva, ed esatta nella sua comprensione oggi, quarantaquattro anni dopo. Dicasi monumento [dal lat. monumentum “ricordo, monumento”] in architettura/ arte: opera scultoria o statuaria eretta a celebrazione di persone illustri o in memoria di avvenimenti gloriosi. E ancora: mausoleo, documento, testimonianza. Fig: Edificio dall’aspetto tetro e imponente.

Dicevo poco sopra che non avevo mai visto l’Arte Povera, proprio perché fino a ieri ero stato uno tra i milioni di spettatori che si sono avvicendati al cospetto dei tantissimi monumenti di quello che è rimasto del movimento. È un poco l’effetto che si ha indugiando sopra la grata che racchiude lo squarcio-fontana di Horst Hoheisel, davanti al Rathaus di Kassel, stampo negativo della Fontana “Degli Ebrei” di Aschrott, distrutta dai nazisti. Si è sospesi sopra il vuoto dove si ascolta l’acqua cadere, flusso inverso della storia, invasi dalla sensazione di essere fantasmi su una superficie che un tempo era “piena”. Così, a Ca’ Corner, mi sono sentito: testimone per anni quasi di una mistificazione; l’ “Arte Povera” che ho sempre visto è il negativo ordinario, e ordinatissimo, di una deflagrazione che brucia ancora.
Lo stesso Celant, curatore di tutta quella consacrazione del movimento avvenuta nei musei italiani nel corso del 2011, si pone come l’autore principale del “monumento Arte Povera”. Che mai come oggi, persa nei white cube di tutto il mondo, risulta privata del potere eversivo che si scopre nelle sale, e non sono poi tantissime, di “When Attitudes Become Form”. Non lo poteva sapere chi non aveva visto la mostra all’epoca, a Berna, e non lo possono sapere nemmeno i nati degli anni ’60: trattasi di un caso dove “studiare le fonti” forse non è abbastanza, dove osservare le fotografie non rende ad ogni modo l’idea che attraversa le sale della Fondazione Prada oggi, e che doveva riempire le sale della Kunsthalle ieri.
Perché la dimensione “domestica” assunta dall’Arte Povera risponde in questo caso alla traccia sgualcita di quella che era la profondità, la muscolatura, la carica di una corrente che oggi si fa apparire, e che viene spesso liquidata, come “poetica”, nel senso femmineo del termine. Di poetico qui invece risalta la capacità reazionaria rispetto ad un sistema che negli stessi anni scopriva anche il corpo come linguaggio, dove erano probabilmente le figure femminili le vere reazionarie, come forma di protesta e richiesta d’amore, e che sull’altro versante si trovava a fare i conti con la Pop Art e con quella scarnificazione totale, soprattutto di linguaggio, che era il Concettuale.
E se Celant parla di un «discorso sull’irripetibilità di un’impresa che è un intreccio tra storico e poetico, connesso ai suoi artefici, che ha dato corpo al desiderio di un travolgimento linguistico e visuale, sviluppatesi nel territorio dell’arte, connesso alle conseguenze sociali e processuali di un periodo radicale», è proprio quel periodo che invece, e qui non funziona né il remake né il ready made, ma semmai solo l’analogia, a non essere replicabile come le opere prodotte.
Seguendo questo passaggio, forse, la ricostruzione delle sale della Kunsthalle svizzera a Ca’ Corner della Regina con Koolhass e Demand, potrebbe risultare quasi pleonastica. Perché a dir la verità gli ambienti ricostruiti tra stucchi e affreschi fanno sì parte della riproduzione impossibile della mostra ma restano, appunto, un’ambientazione a cui il visitatore forse avrebbe potuto non far riferimento. Perché sbalordito da un’eccezionalità delle opere e da una forma installativa che, dopo il grande percorso di Harald Szeemann, mai si è replicato. O meglio, ancora, se ne sono visti solo remake: costruzioni dall’aspetto tetro e imponente. Che a Ca’ Corner invece vivono di un caos armonico, di una modernità incommensurabile, dove le lastre di ghisa di Boetti, i fili elettrici di Alain Jacquet, o i due spazi Rope Sculpture di Barry Flanagan, 1967, solo per citare tre esempi che rispondono alle realtà più radicali dell’epoca – oggi allestite pedissequamente da una serie di osannati giovani – risultano non un lontano ricordo, ma forme vive e terribilmente attuali. “Terribilmente” perché hanno decretato il grado zero della scultura, della sintesi poetica, di una poiesis metamorfica e aderente come Il cotone bagnato viene buttato sul vetro e ci resta, opera di Anselmo del 1969, che già nel titolo resoconta di un’intenzione e di un’attitudine che diviene proprio forma, creando un universo eccezionale di significanti: gli albori di un’evoluzione che nel tempo ha contribuito a “santificare” una manciata di anni e opere, e a creare epigoni esterni.
A questo punto, quello che è ulteriormente interessante mettere sul piatto, è l’ultima questione: abbiamo usato il termine “Arte Povera” per definire i confini (labili) di una pratica che ha usato determinati canoni espressivi, ma che cosa è significato per il sistema semantico della storia dell’arte degli ultimi quarant’anni? «Prima viene l’uomo poi il sistema, anticamente era così. Oggi è la società a produrre e l’uomo a consumare. Ognuno può criticare, violentare, demistificare e proporre riforme, deve rimanere però nel sistema, non gli è permesso di essere libero. Creato un oggetto vi si accompagna. Il sistema ordina così. L’aspettativa non può essere frustrata: acquisita una parte, l’uomo, sino alla morte, deve continuare a recitare. Ogni suo gesto deve essere assolutamente coerente col suo atteggiamento passato e deve anticipare il futuro. Uscire dal sistema vuol dire rivoluzione».
Così scriveva negli “Appunti per una guerriglia” dedicati al poverismo Germano Celant, nel 1969, pubblicati da Flash Art. A giudicare dalla potenza esplosiva che ha “When Attitudes Become Form” oggi pare che l’arte si sia lasciata andare al largo, in un mare di guerriglie che hanno perso il gusto della forma, e che conservano spesso solo un’attitudine mortifera all’esaltazione.
Ma ora il cerchio si chiude: dopo questa “When Attitudes Become Form” non vedrò mai più mostre d’Arte Povera, di quelle tensioni occidentali del visivo in rapporto all’esplosione di interi continenti, nella direzione di una nuova forma di modernità, ma solo monumenti candidi, pacificatori e analgesici.

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  • Nel 1968 ad Amalfi avemmo il contatto con l'arte povera grazie all'intuizione di Marcello Rumma che diede vita ad una rassegna di questa nuova ideologia dell'arte, arte povera, ad Amalfi (Salerno). Partecipai, come artista emergente ad una performance di Gino Marotta che costruì davanti agli Arsenali un cerchio con balle di paglia. La provocazione fu quella di una Antonio Tateo detto Tato allora 20enne, che si calò nel cerchio "opera d'arte" e si sedette, con lo scopo di provocare altri ad avere questo comportamento e così fu. Povero il materiale dell'opera d'arte e "povero" il gesto: una smitizzazione dell'oggetto d'arte e l'inizio di una nuova vita dell'arte con "significati" più che con "segni". Antonio Tateo detto Tato.

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