MANIFESTA D’AVANGUARDIA

di - 8 Giugno 2016
«Noi sapevamo che non si poteva sopprimere la guerra se non estirpandone le radici. L’impazienza di vivere era grande, il disgusto si applicava a tutte le forme della civilizzazione cosiddetta moderna, alle sue stesse basi, alla logica, al linguaggio, e la rivolta assumeva dei modi in cui il grottesco e l’assurdo superavano di gran lunga i valori estetici. Non bisogna dimenticare che in letteratura un invadente sentimentalismo mascherava l’umano e che il cattivo gusto con pretese di elevatezza si accampava in tutti i settori dell’arte, caratterizzando la forza delle borghesia in tutto ciò che essa aveva di più odioso». Sono queste alcune delle splendide e lucidissime parole che Tristan Tzara aveva pronunciato, alla radio francese negli anni ’50, per spiegare la nascita di Dada, l’avanguardia più rivoluzionaria del Novecento, a Zurigo nel 1916.
Sono passati 100 anni, e Dada aprì le porte (insieme a Duchamp) a tutto quello che è venuto lungo l’ultimo secolo, scardinando tradizioni, ribaltando canoni e rendendo isterici e incattiviti i “fan” delle buone cose di pessimo gusto, fatte passare come prodotto dell’arte.
Perché questa lunga premessa? Perché tra poche ore, proprio a Zurigo e comprendendo anche uno dei luoghi simbolo della nascita del movimento, il Cabaret Voltaire, a un secolo dalla nascita di Dada inizia Manifesta, biennale itinerante europea frutto di una visione lungimirante e figlia del proprio tempo, nata all’indomani di un altro grande fatto storico che sancì la fine di un mondo: la caduta del muro di Berlino.
Il titolo, come abbiamo già annunciato molto tempo fa, è il seguente: “What people do for money: some joint ventures” ovvero “Cosa fanno le persone per soldi: alcune collaborazioni”.
E che c’entra Dada? C’entra in tutto. Prima di tutto per un approccio che appartiene originariamente alle avanguardie, ovvero che il curatore – in questo caso l’artista tedesco Christian Jankowski – sia appunto una sorta di insider, come lo erano Tzara, Hugo Ball, Hans Arp, Kurt Schwitters che, come scriveva Mario De Micheli ne “Le Avanguardie Artistiche del Novecento”, “L’energia di Dada venne soprattutto dagli intellettuali non artisti, o da quegli artisti che sapevano egregiamente usare la penna”.
Oggi Jankowski, in occasione delle 35 nuove produzioni per la “sua” Manifesta, ha legato gli artisti ai professionisti, a coloro che forse non sanno usare la penna ma il bisturi, il trapano, la psicologia, e i soldi. Come nel vecchio Dada l’arte entrava violentemente nella vita, ecco che oggi le possibilità di mettere in pratica il cambiamento con “qualche collaborazione” arriva dall’indicazione di aiutarsi reciprocamente in rapporti che, anche se non non simbiotici non saranno solo di comodo, ma chiamati forse – anzi, lo speriamo vivamente – a innescare qualche relazione pericolosa.
Oltre alle nuove produzioni anche un mostra storica co-curata da Jankowski e Francesca Gavin e intitolata “The Historical Exhibition: Sites Under Construction”, a sua volta nata per poter discutere i topos di quello che sta avvenendo oggi, quarta rivoluzione industriale, dove gli amletici dubbi sono contro la guerra della produzione, racchiusi in un “To work or not to work?” o peggio “Cosa facciamo noi per il lavoro, e cosa il lavoro fa per noi?”.
Non è più la Prima Guerra Mondiale attraversata da Dada, ma è la guerra mondiale verso un modo di vivere che, seppur nato in tempi recenti, sta correndo all’impazzata verso la sua stessa implosione.
E che sia l’arte stessa a dover rivedere le proprie “funzioni” e attitudini per evitare la deflagrazione (già avvenuta? In corso?), appoggiandosi non tanto ad altri saperi, ma forse variando proprio un modo di fare, e vedere. Compiendo la bellezza di un’ipotesi che avveniva otto anni più tardi dalla nascita di Dada, nel 1924: quella tracciata da André Breton nel Primo Manifesto Surrealista.
Qui non c’era solo una corrente che era bella “come l’incontro fortuito tra un ombrello e una macchina da cucire su un tavolo sezionatorio”, ma qualcosa di molto più inerente a questa Manifesta, e a noi: “Tanto va la fiducia alla vita, a ciò che la vita ha di più provvisorio, la vita reale beninteso, che questa fiducia viene meno. L’uomo, questo sognatore definitivo, sempre più scontento della propria sorte, con il disagio fa il giro intorno agli oggetti di cui è costretto a far uso, e che la sua indifferenza o il suo sforzo gli hanno offerto: quasi sempre il suo sforzo, perché egli ha consentito di lavorare o perlomeno non ha rifiutato di tentare la sua sorte, quella che chiama la sua sorte!”.
Così come Dada, così il Surrealismo, anche questa Manifesta come l’arte tutta del resto, sarà solo un affare per oziosi, per perdigiorno, perché in fondo questo è ciò che pensa il mondo del “lavoro” della politica creativa. Il tentativo (avanguardistico) di unire le pratiche è encomiabile, e sarà un perfetto e riuscito esperimento. Poi, forse, si rientrerà nella propria nebbia, ognuno al proprio tavolo. E stavolta non ci sarà nemmeno tanta differenza con le terribili avanguardie, visto che Marguerite Humeau ha lavorato con un ingegnere robotico per la creazione di un balletto per due creature completamente cyborg che emetteranno però canti di accoppiamento, e rilasceranno ormoni sintetici: Surrealismo. Mike Bouchet, invece, invade il Migros Museum con una montagna di escrementi ripuliti, in un’opera d’arte collettiva realizzata da tutta la città: Dadaismo. Ma Dada è morto? Viva Dada! E bentornata Manifesta!
Matteo Bergamini

Sopra: Pavillon of Reflections © Manifesta11 / Wolfgang Traeger
Home page: Cabaret der Künstler © Manifesta 11 / Livio Baumgartner

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