Vero e falso che sia (di musei continuano a nascere in continuazione e i primati durano poco), la sala Enel, chiamata così in omaggio al main sponsor del Macro, è molto attraente per gli importanti volumi, ma difficilmente praticabile. La mostra che vi si inaugura oggi, “Neon. La materia luminosa dell’arte” (a cura di David Rosenberg e Pietromarchi) è l’occasione per movimentarla, creare nuove pareti e soprattutto articolare un percorso tematico.
Le altre due mostre che inaugurano contemporaneamente a “Neon” sono un’antologica su Claudio Cintoli e la project room allestita da Gregorio Botta. Due iniziative molto diverse, la prima è l’occasione per conoscere questo artista marchigino, attivo negli Sessanta e che in questo decennio raggiunge una notevole capacità espressiva segnata da un netto eclettismo, che spesso contraddistingueva gli artisti di quel periodo alle prese con media e linguaggi, ma che non ha giovato alla definizione del suo profilo artistico. Il ricorso alla fotografia, al collage, la performance, il video, la pittura prima figurativa, poi informale infine iperrealistica (ed è la stagione migliore da cui provengono eccellenti quadri), l’installazione è ampiamente documentato nella mostra curata da Daniela Ferraria e Ludovico Pratesi. Che restituisce una figura spesso in anticipo sui tempi, performer secco (Crisalide), fotografo che sfida le convenzioni e si avvicina a una body art a volte caratterizzata da una forte sessualizzazione a volte anche disturbante (il ciclo delle foto scattate con la moglie), installatore prepoverista che fa uso di corde e altri materiali (Nodi e Pesi Morti), ma anche public artist che interviene con un grande murales al Piper, locale cult della Roma anni Sessanta. Completano la mostra i Diari, tredici quaderni autografi zeppi di appunti, schizzi e progetti, per la prima volta esibiti al pubblico che aiutano a mettere a fuoco il profilo di questo artista scomparso precocemente (muore a Roma bel ’78 a 43 anni), altrettanto presto dimenticato anche per la sua posizione volutamente fuori dal sistema dell’arte.
Infine, Gregorio Botta che ha realizzato un ambiente molto intimo ma dotato al tempo stesso di un’intensa forza espressiva (a cura di Guglielmo Gigliotti). Si accede a una stanza quasi buia, intravista all’inizio come chiusa, una sorta di scatola museale al contrario: non freddo white box ma box oscuro e caldamente illuminato da enigmatici bagliori. Quello che appariva impenetrabile, si rivela invece essere un ambiente accessibile, che ruota intorno a un baricentro tematico dato dall’idea della dimora: tante casette sono allineate alle pareti, alcune rivelano interni neanche poveristi, semplicemente acquatici, mentre altre rimandano alle pareti delle flebili luci da cui si intravedono scene di vita quotidiana, brani di vecchi film amatoriali che appartengono alla memoria privata dell’artista, mentre altre ancora disperdono semplicemente il proprio bagliore sulla parete. Al centro, su un cubo di cera, bagnato da gocce d’acqua, sono riportati due versi di Emily Dickinson: “Trovare è il primo atto/ e il secondo perdere”.
A.P.
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