Sachsenplatz, Clara Grillmaier
Lo scorso settembre, in una Vienna insolitamente soleggiata, ho avuto la fortuna di incontrare Nina Zips e Clara Grillmaier, due delle fondatrici di Never At Home. Come suggerisce il nome, Never At Home è uno spazio di ricerca che non può essere ricondotto a un luogo specifico, un’iniziativa nomade il cui obiettivo principale è la trasformazione di edifici e spazi urbani inutilizzati in studi d’artista, spazi espositivi, luoghi per concerti o performance. La loro versatilità e la freschezza dei progetti mi hanno spinto ad approfondire come queste strutture diffuse in tutta la città divengono centri culturali vitali, dando voce a due delle necessità proprie della nostra generazione: il costante desiderio di rigenerazione e la propensione alla ricerca errante. Ne parliamo con Nina Zips.
Ciao Nina, grazie per il tempo che mi stai dedicando. Dal nostro primo incontro, sono stata immediatamente colpita dall’approccio forte e in costante innovazione del vostro progetto. Per coloro che non vi conoscessero, potresti presentare Never At Home – cos’è, come è iniziato il progetto e qual è il suo obiettivo principale?
«Never At Home è uno spazio d’arte e un’iniziativa urbana che attiva edifici sfitti a Vienna. Dal 2021, apriamo studi, laboratori e spazi espositivi per artisti, musicisti e altri professionisti. Ogni luogo è temporaneo, ed è plasmato dalla sua architettura e dal suo contesto. Nel 2021, abbiamo riaperto una ex scuola superiore nel centro della città. Quella che sembrava un’attivazione una tantum si è rapidamente trasformata in una catena di progetti: uno studio legale, una casa editrice e, ora, la ex ORF Funkhaus, il più antico centro di trasmissione austriaco. Poiché ogni luogo era diverso, la natura dei progetti e delle collaborazioni che potevano realizzarsi variava notevolmente.
Il nostro obiettivo principale è creare spazio dove non ce n’è. Dare agli artisti delle stanze per lavorare, offrendo allo stesso tempo alla città un luogo di incontro. Attraverso residenze internazionali, studi e un programma pubblico, apriamo un ambiente sperimentale. Si tratta di vedere cosa succede quando si aprono le porte».
La condizione nomade del “non essere mai a casa” è forse caratteristica del nostro tempo; implica un dinamismo estremo ma anche la sensazione di non appartenere a nessun luogo particolare pur appartenendo al mondo intero. State valutando di aprire questo progetto ad altre città e di renderlo itinerante?
«Siamo intrinsecamente nomadi. Never At Home non consente un vero radicamento; ad ogni arrivo, ci stiamo già preparando per partire. Eppure, finché un’attivazione dura, ci sentiamo intensamente locali. Diventare internazionali sembra naturale per il progetto. Non consideriamo Never At Home come un formato da esportare o ripetere, però; dipende interamente dall’edificio, dal contesto e dall’invito. Dopotutto, se un’altra città apre le porte, perché non esplorarla? Fino ad ora, questo aspetto è stato gestito principalmente attraverso il nostro programma di residenza e le collaborazioni internazionali».
Attivare spazi diversi è una modalità interessante per concentrarsi su varie pratiche. Ho notato che proponete diversi tipi di ricerca – performance, film, installazioni – tutti incentrati su tematiche differenti. C’è un fil rouge che collega ogni progetto, oppure optate per un approccio più esplorativo e non programmato? Sentiti libera di citare alcuni progetti specifici se preferisci.
«Ogni spazio stabilisce le proprie condizioni. A volte è pratico: quante stanze vi sono a disposizione, se gli studi possono essere singoli o condivisi; eventualmente aggiungiamo un laboratorio di ceramica, una camera oscura o uno spazio per le presentazioni. Poi c’è il contesto: i vicini, la loro tolleranza al rumore e quanta vita pubblica il sito può effettivamente sostenere. Molte delle nostre sedi sono nel centro della città, spesso residenziali, e questo influisce certamente su ciò che possiamo o non possiamo fare. Osserviamo anche la storia dell’edificio.
Al Funkhaus, un tempo centro di trasmissione, ci è sembrato naturale concentrarci sul suono e sulla performance. Nell’ex edificio scolastico l’attenzione era sui laboratori, creando ancora una volta uno spazio per l’apprendimento, ma in condizioni diverse. Il fil rouge non è qualcosa che imponiamo; è lo spazio stesso e il modo in cui costruiamo un programma attorno ad esso. Ogni progetto parte da lì. Ciò che li connette è una certa apertura – al contesto, alla sperimentazione e a ciò che l’edificio rende possibile».
Parlando dei vostri ultimi progetti al Funkhaus, tra maggio e giugno avete presentato My Body is a Temple, a cura di Carmen Lael Hines e Clara Grillmaier. Si trattava di un progetto di ricerca condotto da 2050+ che esplorava l’intersezione tra arte e ricerche di critical technology studies. Puoi dirmi di più sugli artisti e le opere coinvolte, o si è trattato di uno sforzo di ricerca collettivo da parte di un singolo gruppo? Inoltre, sarei curiosa di conoscere le riflessioni raggiunte alla fine del progetto riguardo alle interconnessioni tra corpi e spazio e se questi siano stati visti in una prospettiva tecnocratica.
«My Body is a Temple ha riunito tre installazioni site specific molto diverse, tutte incentrate su come le tecnologie mediano ciò che consideriamo “interno”. Arvida Byström ha presentato la vagina di una bambola sessuale automatizzata off-the-shelf, programmata per raggiungere l’orgasmo udibile utilizzando dati raccolti dall’interazione uomo-macchina. L’Institute for Postnatural Studies ci ha portato all’interno dello stomaco di una balena, il cui suono era stato estratto da tecnologie militari avanzate e ora circola come colonna sonora wellness. E 2050+ ha messo in scena l’apparato digerente di una mucca come un sito dove potrebbe iniziare la futura produzione di carne sintetica. Quindi non erano un unico collettivo, ma tre pratiche separate. Ciò che le legava era l’idea di entrare in un corpo ed espanderlo fino a scala architettonica.
Il Funkhaus stesso portava già con sé questa metafora: come ex stazione di trasmissione austriaca, funzionava quasi come il canale uditivo di una città, trasmettendo voci in migliaia di salotti. Le opere erano meno incentrate sulla tecnocrazia e più sulla visualizzazione tecnologica, su come percepiamo i corpi interni attraverso la tecnologia, utilizzando le storie dell’imaging biomedico come punto di partenza. In generale, i progetti sono più esplorativi, non richiedono davvero una risposta, ma pensano invece a come possiamo impostare queste conversazioni tra il corpo e la tecnologia».
Guardando avanti, state esplorando attualmente progetti o collaborazioni specifici che vi permetteranno di mantenere lo spirito di Never At Home dopo la residenza al Funkhaus?
«Per quanto riguarda la prossima location, vedremo. Il progetto si è sempre mosso un po’ più velocemente dei suoi stessi piani. Una cosa che continueremo è il programma di residenza che abbiamo iniziato nel 2025. È un modo per far arrivare persone diverse e vedere come rispondono all’ambiente qui al Funkhaus. Di solito coinvolgiamo un curatore internazionale o una piccola giuria nella selezione, non per formalizzarla, ma per evitare che la conversazione si chiuda su sé stessa. Allo stesso tempo, stiamo iniziando a connetterci con altri progetti emergenti a livello internazionale, iniziative che condividono una curiosità simile nell’esplorare nuovi modelli. L’idea non è solo quella di portare Never At Home altrove, ma anche di sostenere e ospitare progetti collaborativi qui a Vienna. È uno scambio continuo in entrambe le direzioni che promuove nuove forme di produzione collettiva».
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