Rivalutare Steve McQueen

di - 26 Agosto 2013
But the world is rich with
Great love unfound:
Even in the terror
There is love, twisted round
And round. Set it free:
River, flow to the sea
Ben Okri
Con la prima mostra comprensiva di buona parte del lavoro di Steve McQueen (fino al 6 settembre), dai video alle fotografie, la recente riapertura dello Schaulager dopo due anni di grandi restauri diventa una impressionante “città del cinema” (idea e definizione dell’artista) con oltre 20 grandi schermi che rendono lo spazio una vera sala, insieme a schermi più piccoli, stanze e proiezioni dentro e fuori dall’edificio. Avverte Steve McQueen: «Voglio che lo schermo diventi un immenso specchio, dove quando vi guardi dentro tu possa vedere te stesso». E sicuramente i film e i video presentati sono la specchio di noi stessi, del mondo, della nostra società, dell’era della stupidità e di ciò che manca al nostro quotidiano.
La precisione dell’installazione di questi lavori fa parte del concept dell’artista, che ovviamente ha calibrato tutti i dettagli per la massima resa di ogni singola opera. Lo spettatore è chiamato a entrare in un grande labirinto scuro, solamente illuminato dalle proiezioni, abbracciato da tutto il corpus di immagini in movimento, lasciando fuori il rumore del mondo, chiamato a concentrarsi e ad immergersi solamente nei video che scorrono e raccontano.
McQueen crea un ambiente dinamico, esteso dai film alle sculture, facendo scivolare il pubblico in un immenso mondo delle meraviglie, dove l’autore racconta una serie di storie che muovono da uno spazio immaginario all’altro, esattamente come fa Alice. La sola differenza è che queste immagini prendono vita da realtà sociali e politiche (Static, Bear), prospettive terrificanti, Just above my Head, fughe e inseguimenti, Pursuit.
Nella vasta scala del muro di specchi si intensifica la sensazione di confusione e di inseguimento, sempre vicino alla possibilità di urtare il muro di immagini in cerca della possibilità di uscire dal labirinto. L’impatto dell’eventuale disastro per lo spettatore è nel video Deadpan che parla dell’esperienza di esporsi al pericolo: l’artista in questo caso passa letteralmente da una finestra quando un’intera casa di legno crolla intorno, su sé stesso. Con questo pezzo McQueen vinse il Turner Prize nel 1999.
Charlotte invece esprime metaforicamente l’aspetto della vulnerabilità, quando le dita dell’artista si apprestano a toccare gli occhi dell’attrice Charlotte Rampling. Un vero momento di “debolezza”, di nudità e assenza di protezione, dove gli occhi sono raccontati come una delle parti più fragili del corpo umano.
Ma forse i video più carichi di uno scambio, di un dialogo tra corpi sono Carib’s Leap e Western Deep che raccontano entrambi di una situazione di schiavitù.
Nel primo due proiezioni sulla facciata esterna dello Schaulager raccontano di un giorno nella vita dei Caraibi, all’isola di Grenada, dove le famiglie originali sono quotidianamente in lotta con i colonizzatori francesi, in una visione che prende in esame l’attualità e, in un video che racconta il momento dello sbarco degli europei, nel 1651. Western Deep è invece stato girato nella più profonda miniera d’oro del mondo, in Sudafrica: conosciuta con il nome del titolo durante il periodo dell’Apartheid, il video mostra le condizioni di lavoro dei minatori.
McQueen, insomma, muove dai conflitti e dai tabù della società, mettendo il  soggetto in primo piano, mostrandone i dettagli in maniera nitida, precisa.  La sottigliezza delle immagini crea, infatti, atmosfera e connette idee senza essere politica, ed è questo che colpisce di più nella mostra.
L’artista crea un dibattito politico e sociale senza diventare ovvio, cercando una perfetta miscela tra l’aspetto documentaristico e quello dei film, anche con l’aiuto di una serie di illuminotecniche precise e un ottimo impianto sonoro.
Perché la citazione di Ben Okri con la prima strofa della poesia “The World is Rich”? Lasciando la mostra, si viene sputati fuori da un universo parallelo nella luce naturale del mondo. Quello che resta è la sensazione che l’artista voglia in fondo solo mostrarci il suo grande amore per questo pianeta, ma facendolo a modo suo: attraverso una serie di sconcertanti immagini. E il resto? Il resto era Art Basel, con il suo ronzio, quest’anno non diverso dal solito. Star di Hollywood, collezionisti super ricchi, cantanti hip hop che lottavano per diventare parte dell’art world più fashion, calciatori famosi e diversi altri personaggi, protagonisti ancora una volta della più importante fiera d’arte al mondo.
Accanto agli usuali e digeriti grandi pezzi della kermesse principale, una deludente Volta e una sovraccarica ma non per questo opprimente Liste, un funereo e noioso “Solo project” insieme a un pubblicizzatissimo, ma completamente trascurabile, Art Parcours. Per fortuna non sono mancate alcune visioni positive.
Ho visto con grande sorpresa ottimi pezzi ad Art Unlimited e Art Statement, una bellissima mostra dedicata a Max Ernst alla Beyeler Foundation che, con i Jungle Paintings, mi ha portato nella giungla della natura.

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