Sentire il mondo attraverso la propria pelle

di - 18 Aprile 2016
Il titolo della la personale di Giuseppe Penone (Garessio, 1947), di scena al Mart di Rovereto fino al 26 giugno, recita semplicemente “Giuseppe Penone. Scultura”, nessuna tematica contenitiva, nessun argomento specifico perché il titolo non vuole illustrare le opere presenti, ma portare direttamente al cuore della ricerca dell’artista: la scultura nel suo significato più originario e primitivo, quello del gesto che incide e plasma la materia.
Il neodirettore del museo roveretano Gianfranco Maraniello, ha invitato l’artista piemontese a confrontarsi con l’architettura del Mart che, dopo anni di pareti divisorie e lucernari schermati, è tornato a rivelare la sua purezza strutturale e una luce naturale che dialoga perfettamente con le opere esposte. Penone ha scelto di assecondare l’architettura ospite e ha selezionato lavori che si adattano meglio allo spazio: oltre sessanta opere che ripercorrono gli elementi fondamentali della sua ricerca artistica con particolare attenzione alla produzione più recente che rielabora alcune delle sue opere storiche come: Continuerà a crescere tranne che in quel punto – radiografia (2010) e Trattenere 6/8/12 anni di crescita (continuerà a crescere tranne che in quel punto), (2004-2010/2004-2012/2004-2016), che mostrano alcune tappe del processo di inglobamento progressivo, ancora in corso, della mano scolpita che Penone aveva installato alla fine degli anni Sessanta sul tronco di un albero nel bosco della sua città natale.

La mano dell’artista afferra l’albero modificandone per sempre il corso della crescita così come lo scultore interviene sulla materia alterandone la forma originaria. L’azione primordiale del toccare è quella che permette all’uomo di conoscere il mondo, un’eco di spinoziana memoria che attesta il corpo e la propria pelle come la superficie di contatto e di conoscenza tra l’uomo e la realtà. I limiti fisici del corpo sono ciò che da essa lo separano e che contemporaneamente gli permettono di conoscerla ed è per questo che Penone scultore imprime nei suoi lavori i suoi gesti, i segni del suo tatto che lascia una forma e una traccia indelebile sulla materia. Nella conferenza stampa di apertura della mostra, l’artista ha affermato infatti che, durante il processo creativo non ha in mente un’immagine da riprodurre perché il suo lavoro è una messa in atto di un dialogo con la materia stessa e quindi un pugno di terra stretta in una mano diventa il calco ingigantito di Avvolgere la terra (2014) o lo stesso corpo e soffio dell’artista diventano una matrice nell’opera Soffio di foglie, realizzata per la prima volta nel 1979 e riproposta in video nel 2015, testimonianza di una ‘performance’ in cui Penone si adagia su una catasta di foglie per imprimervi sopra la forma del suo corpo e spostare le foglie con il soffio della sua bocca.

La materia raccoglie un’azione, ne è testimone e testimonianza al tempo stesso per questo l’interno di un vaso diventa il luogo dove conservare la traccia invisibile della sua mano  per essere poi riconsegnata alla luce, anche in questo caso, attraverso una radiografia. Oltre alla materia è anche la natura stessa che accoglie il gesto dell’artista e lo mantiene in sé, diventandone parte ne I Gesti vegetali (1983-1984), sculture che si fondono e si confondono con l’essere vegetale. Queste filiformi figure in bronzo si fanno pezzi di nodosa corteccia e foglie di alloro e abbracciano le piante: la scultura avvolge il vegetale e viceversa creando una simbiosi perfetta (e ingannevole) che continua a vivere nel tempo e si realizza sempre di più (i primi Gesti vegetali vivono dal 1984 nei boschi di San Raffaele Cimena).
Meno vicini all’universo vegetale e più alla scultura in senso classico sono i lavori in marmo, materiale scultoreo per eccellenza di cui Penone sembra però sconvolgere le proprietà costitutive e che, da blocco pesante e impenetrabile diventa delicato Sigillo (2012), un timbro nervato che ha impresso il suo motivo su una superficie che appare incongruamente, rispetto alla sua natura materiale, morbida e malleabile. Così anche nella serie Pelle delle montagne (2012) il marmo si fa strato sottile, una velina geologica, una pelle appunto. È proprio attraverso la pelle che l’uomo, l’artista in questo caso, conosce ed esperisce il mondo e la natura e questa a sua volta si offre a lui attraverso la sua superficie, una scorza, una corteccia talvolta vuota come quella dello Spazio di luce (2008) che, come un pilastro portante, attraversa verticalmente il vuoto dei piani del museo quasi a sorreggerlo ma che, se osservato dal basso, destabilizza e coinvolge in una vertigine dorata che ci riporta al ciclo naturale delle cose e all’origine stessa dell’uomo.
Sara Candidi

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