Ci sono mostre che si sfogliano come album, altre che si vivono come un incontro. Aprile 1945: Torino è libera. La ripartenza della città appartiene alla seconda categoria e forse è proprio per questo che ho scelto di visitarla insieme ai miei studenti. La storia, quando si fa immagine e, soprattutto, quando personifica una città che riconosciamo, richiede la presenza di una pluralità di sguardi.
Davanti alla mappa dei bombardamenti, la distanza storica si è cancellata. Torino è stata la prima città in Italia a essere colpita, già nel giugno 1940 e poi altre 56 volte. Oltre un terzo del suo patrimonio edilizio è stato distrutto: musei, teatri, archivi e biblioteche pugnalati come bersagli anonimi. E quando i ragazzi hanno trovato via Barbaroux, via Garibaldi – la scuola, il loro posto sicuro, il percorso del quotidiano – segnate in fucsia e rosso – si è accesa in loro una consapevolezza nuova. È stato un momento di identificazione che ha gettato un immediato ponte tra passato e presente. «Da lì ci passiamo tutti i giorni!». Quel dato, 460mila sfollati, due terzi della popolazione, in un momento, non era più soltanto un numero, i bombardamenti non erano più un contenuto confinato nel manuale: erano un fatto accaduto a casa loro.
La fotografia di Piazza San Carlo, devastata dai bombardamenti, ha completato il mosaico percettivo di una città che non riconosce più se stessa. I portici feriti, le piazze che oggi vivono nella routine, qui appaiono in un corpo scomposto e friabile.
Ci siamo soffermati a leggere i documenti del Comitato di Liberazione Nazionale e del CLN cittadino. I proclami richiedevano alla popolazione di mobilitarsi: «Torinesi, ognuno di voi ha il dovere di mettersi con tutte le forze a disposizione…» E ancora, l’invito, sorprendentemente moderno, rivolto alle donne – «Anche le donne diano la loro opera…» – e di uguaglianza, «…che può riuscire altrettanto preziosa di quella delle Formazioni combattenti». E poi, il 28 aprile: «Il Piemonte, grazie all’opera vostra, è libero!». Una frase che, letta oggi, ci restituisce un’idea di responsabilità condivisa che non andrebbe mai archiviata.
Ma non è finita: nel 1945, migliaia di persone tornano in una città che ha altro volto e devono ricominciare. Il dopoguerra è raccontato nella mostra con eleganza documentaria: restituisce la fragilità di quei mesi postbellici. Prezzi proibitivi, famiglie senza casa, i profughi delle Casermette, le distribuzioni di brande, coperte, cibo, vestiti, i bambini mandati in colonia per poter mangiare.
E quella lettera – la letterina di una bambina della colonia di Reaglie – che ringrazia il Sindaco per caramelle e biscotti, con una gratitudine che disarma: «Siamo tutte molto felici e non dimenticheremo la Sua generosità.»
Un grazie semplice, che oggi ci parla più di qualsiasi manifesto politico. Leggendola ai ragazzi ho visto nei loro occhi lucidi la consapevolezza che la storia è fatta anche di gesti piccoli che restituiscono dignità, di attenzioni minime che diventano fondamentali quando tutto manca.
La mostra non ha solo raccontato la Liberazione di Torino, credo abbia chiesto qualcosa anche a noi: di guardare la città con occhi più attenti, di riconoscere le fragilità che le appartengono. E di non dare mai per scontato ciò che abbiamo ereditato. Visitarla significa concedersi un atto di responsabilità, non un ritorno al passato ma un modo per capire meglio il presente.
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