Tutta un’altra storia

di - 24 Gennaio 2019
L’ICA, parliamoci chiaro, non è come ci si aspetta un Istituto per l’Arte Contemporanea. Non è come ci si immagina una fondazione che si occupi di cultura di oggi, almeno nella “pettinata” Milano. L’ICA italiana, che apre le sue porte oggi nel cortile di via Orobia 26, a SUPRA – South of Fondazione Prada, nuovo e ironico acronimo ideato da Zero -, è uscita (architettonicamente e formalmente) da un altro tempo.
È il tempo dove conta il messaggio dell’arte, più che il contenuto; un tempo che può sembrare “moderno” più che contemporaneo, ma come ben sappiamo la contemporaneità esiste nell’accezione di “una sfasatura e un anacronismo” (Giorgio Agamben).
Il tempo dell’ICA è quello di un desiderio, di riportare il “bene comune” dell’arte e della cultura a disposizione dei cittadini
Ma da dove nasce questa idea, questa volontà? «All’origine da un’esperienza e desiderio personali. Dopo quasi 20 anni di lavoro nei musei non avevo più intenzione di tornare nel sistema regolamentato. Così, insieme a degli amici, abbiamo iniziato a pensare di fare qualcosa», ci racconta sulle scale di marmo e travertino dell’ICA il direttore Alberto Salvadori.
Tra questi amici ci sono il Presidente di ICA, Lorenzo Sassoli de Bianchi – per anni con Salvadori alla Fondazione BolognaMusei – il collezionista Enea Righi, e Giancarlo Bonollo, tra gli altri. Un’idea – quella di Salvadori – che è piaciuta al gruppo, «perché si tratta di mettere a punto un luogo svincolato da processi “produttivi”, ma di riportare l’arte a una funzione “socialmente utile”».
Milano, ovviamente, è venuta di conseguenza perché è l’unica città in Italia che ha dato luogo a una processualità, e il luogo è arrivato quasi per caso: «Abbiamo visionato parecchi immobili che già erano a posto, senza necessità di lavori, in zone che però erano già molto connotate. Dove non può “crescere” nient’altro. Qui, la speranza, è che il quartiere nei prossimi anni possa diventare un nuovo agglomerato anche “sociale”. E poi qui ICA è immerso in un luogo di lavoro, in un cortile. Ci piace pensare che l’arte si trovi in un luogo di lavoro, proprio perché è una pratica non è slegata dalle produzioni della vita», afferma Salvadori.
Antonio Ottomanelli Baghdad, Baghdad Zoo n1 – from “Great Baghdad Garden” series 2010-2014 Analog photography Traditional analog film RA-4 Type Print 70 x 60 cm Edition of 7 + 1AP Courtesy of the artist and Montrasio Arte Gallery
Il budget stanziato non supera i 150-200mila euro per il primo anno. ICA è stato progettato per essere un ente sostenibile, con una inversione dei poli, ovvero: i contenuti possono costare e i soldi a disposizione sono per quelli, mentre i costi di gestione dello spazio sono stati azzerati o quasi.
E a proposito di spazi, l’ICA non ha gerarchia di ambienti, né una “topografia interna” fissa: tutto è stato s-vincolato per essere libero e senza alcun costo di ripristino, per esempio.
«Questo luogo non avrà la funzione di un museo, è una fondazione privata e completamente no-profit; vivremo anche di donazioni libere dei cittadini, senza mettere a disposizione gold card o membership varie ed eventuali, come un museo però anche ICA genererà valore – continua Salvadori – è un luogo destinato alla ricerca e alla progettualità delle idee. Insieme a Luigi Fassi e a Riccardo Venturi stiamo pensando a una scuola di filosofia, e avremo anche una biblioteca dove costruiremo, per ogni progetto, una bibliografia consultabile da parte del pubblico».
Con gli altri ICA sparsi per il mondo occidentale, per ora, non ci sono pianificazioni, ma il rapporto più stretto, anche per “legislatura” dell’istituzione è con quello di Londra, con il cui direttore Stefan Kalmár Salvadori ha già lavorato durante la sua direzione al Museo Marino Marini di Firenze.
Veniamo ora, però, alla prima prova di ICA, con la mostra “Apologia della Storia”, curata da Salvadori con Luigi Fassi.

Ryan Gander 2000 year collaboration (The Prophet), 2018 Image credit: © Ryan Gander and gb agency, Paris Image Aurélien Mole.

«Volevamo raccontare la storia “dal basso”, quella degli esclusi, i protagonisti minori che però fanno a loro volta la storia, con tutto quello che contribuisce alla vita quotidiana», attacca Fassi, direttore al MAN di Nuoro. L’ispirazione è arrivata dal libro omonimo di Marc Bloch, filosofo francese che scrive in maniera appassionata, durante gli anni ’40, proprio quella che è la sua idea di “disciplina della storia”, una pratica che racconta l’uomo, con le sue paure e le sue aspettative.
Ecco che la storia diventa un terreno comune con l’arte, la poesia. Così come l’ambito creativo, anche la storia è una disciplina che non ha – per forza di cose – una dimensione scientifica; è sempre un “resoconto”, spesso bollente, emotivo, della contemporaneità o del passato prossimo.
«La logica della mostra segue proprio il pensiero di Bloch: Si snoda senza una cronologia precisa, mettendo al centro ricostruzioni storiche degli artisti che interrogano il proprio passato, la propria identità, la politica, la geografia», continua Fassi.
In tutto ICA si compone di 700 metri quadrati, su due piani, e per quest’occasione gli artisti in scena sono dodici, dall’italiano Antonio Ottomanelli con la sua ricerca sull’area “negata” di Baghdad a James Lee Byars e Ryan Gander.
Nanna Debois Buhl, Donkey Studies, 2008, C-print
E poi Nanna Debois Buhl, che da anni racconta pezzi della storia europea (danese) attraverso elementi “liminari”, come gli asini bianchi di St. John, isola dell’arcipelago delle Vergini ed ex colonia del Paese scandinavo ceduta poi agli Stati Uniti, che oggi rappresentano il simbolo “maledetto” di quel passato, rimosso tanto dall’Europa quanto dagli abitanti locali che hanno condannato all’oblio gli animali importati dal nord.
Vatamanu & Tudor, che con il delicatissimo video Right of Spring mettono in luce la condizione degli orfani e dei bambini di strada di Bucarest, intenti a passare il tempo bruciando i pollini a primavere, e anche la tangerina Yto Barrada, che denuncia la mancanza di lavoro del Marocco nella bella serie fotografica Plumber Assemblage, 2014, in cui gli idraulici della città africana, riuniti nel “Gran Socco”, la piazza adiacente la Medina, si trasformano in scultori assemblando pezzi di tubi e rubinetti, e dimostrando “al pubblico” la propria disponibilità a lavorare.
Per tutto il resto stasera si inaugura, e vi invitiamo a cogliere l’occasione per farvi un viaggio a Milano sud. L’ingresso libero, perché la gratuità è un’altra condizione con la quale anche il pubblico fa i conti.
Matteo Bergamini

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