Non vedremo, né l’albero, né la conchiglia, nelle opere di Brice Marden. Forse, però, percepiremo quella possibilità – che ha l’ambizione di infinito – a cui fa riferimento nella citazione che abbiamo riportato in apertura, quella potenzialità di depositare segni, come strati su un supporto che di volta in volta è tela o carta, con uno strumento che diventa il tramite per vincere una presunta resistenza tra la mano e la superficie.
All’artista statunitense (è nato a Bronxville, New York nel 1938) è dedicata la IV edizione delle Vetrine alla Calcografia, un percorso antologico, a cura di Mario Codognato: circa cinquant’anni attraverso incisioni, disegni e pittura.
Nessun racconto, per scelta: mancano quelle forme riconoscibili, a cui diamo il nome di soggetti, che sono anche i puntelli perché possa iniziare una narrazione, restano quei segni, sulla carta, geometrici, rigidi o grovigli sinuosi e sembra di vedere lo strato che viene a galla, retto da un ordine silenzioso che ne stabilisce il ritmo, i rapporti tra le forme, mentre s’indovina che c’è altro depositato in una profondità remota e destinato a rimanere lì, come una sorta di fondamenta.
Dai monocromi, dove gli interventi sono simili a scalfitture rigorose, alle partizioni a rettangoli, con il diverso addensarsi degli incroci di linee, talvolta tanto sottili e ravvicinati da sembrare una stesura uniforme, ai mosaici immaginari, ai Five Threes (1976 – 77) variazioni sul tema del numero tre, all’Hydra Group (1979) altro serie di composizioni geometriche, dove i rettangoli si saldano, ma la pittura tende a debordare dai margini… fino all’incontro con la scrittura giapponese, negli anni Ottanta. Allora i segni saranno linee curve, senza alcun obbligo apparente, e potranno riempire tutto il campo rettangolare a loro concesso (Cold Mountain Zen Studies 1991)
In altre opere, memori di una antica Grecia terra di divinità, quelle stesse linee evocheranno le Nove Muse e saranno quel che resta di un panneggio, mosso da un incedere danzato.
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