Troppo semplice sarebbe pensare all’arte pittorica come a una fedele mimesi della natura. Ma, di contro, ci si dovrebbe sottrarre anche alle insidie di un’arte contemporanea spesso rifugiata in un astrattismo assoluto e sterile, che rischia di tranciare in modo netto ogni legame con la realtà. Ecco allora apparire il
naturalismo essenziale di
Carlo Levi (Torino, 1902 – Roma, 1975), da lui stesso teorizzato, con cui il pittore-letterato esprime il mondo che osserva con gli occhi della ragione, trasfigurandolo attraverso la forza autentica del sentimento.
Dopo i viaggi a Parigi e l’esperienza con il gruppo dei “Sei di Torino”, la pittura di Levi muta forma e direzione attraverso il contatto con la Scuola Romana e i suoi esponenti (
Mafai,
Afro,
Guttuso,
Pirandello,
Ferrazzi,
Melli,
Raphaël,
Scipione). Nelle tele realizzate a Roma a partire dagli anni ’30 e fino al 1954 appaiono più sensualità e maggiore dinamismo rispetto ai primi periodi di attività, ma soprattutto emerge la volontà di far fronte al difficile momento storico che l’artista si trova a vivere, con i dubbi e le ansie che prendono piede tra le due guerre. Le forme morbide e fluide dei suoi quadri si contrappongono alle figure spigolose, retoriche e fredde proposte nell’architettura dal Fascismo, promettendo uno slancio di libertà.
Roma diventa essa stessa la musa ispiratrice, e con lei il suo cielo, i tetti, le strade, e quel misto di vecchio e nuovo che respira incessantemente nel ventre della Capitale: in
Paesaggio romano con archi in rosso (1931) e in
Paesaggio di Roma con conchiglia e natura morta (1947) la città diventa creta plasmata dalle mani dell’artista.
Le paste s’ispessiscono divenendo corpo sulla tela, i colori si fanno più violenti e intensi, le pennellate appaiono larghe e decise, pronte a donare al quadro quel movimento ondoso, quell’inquietudine onirica tipica delle opere dell’artista. L’approccio magico con cui si avvicina alla città è lo stesso, visionario ed espressivo, con il quale affronta le nature morte o i corpi e i visi dei soggetti ritratti: l’arte pittorica non può darsi da sola i confini entro cui soffocare, deve aprirsi alla dimensione fuggevole ed evanescente del mito, come appare evidente in
Due uomini che si spogliano (1935) e in
Autoritratto (1945).
E la sua vita, complicata, difficile, vissuta si ritrova intatta sulla tela: Carlo Levi, ebreo, ha sofferto il carcere, l’esilio, la discriminazione, la mancanza di libertà. Ha conosciuto l’insensatezza crudele della guerra e la miopia del regime. Ma si è ribellato, non potendo rinunciare a esprimersi: la propria soggettività di uomo respira nelle sue opere, che restano ancora oggi un grande esempio, al tempo stesso, di pittura politica e sentimentale.