“Voglio che ogni persona ritratta sia come una multinazionale. Con un suo logo” ha dichiarato Julian Opie (Londra, 1958) in una recente monografia edita dalla Tate publishing. Ed effettivamente, osservando i suoi ritratti, non si può fare a meno di pensarli come dei loghi, frutto di una bizzarra quanto riuscita combinazione di universale e particolare. Nonostante ogni volto sia invariabilmente composto da un ovale, un paio di linee curve per la bocca e per le sopracciglia e due puntini neri per gli occhi, le persone rappresentate risultano sempre caratterizzate e, nel caso di personaggi famosi, persino riconoscibili (molto nota la copertina di un cofanetto dei Blur su cui campeggiano i quattro componenti della band britannica ritratti in opie-style). Questo risultato viene ottenuto grazie ad un procedimento di fusione. Gli ingredienti di partenza sono i due estremi che racchiudono tutte le possibili rappresentazioni del reale: la segnaletica, con le sue raffigurazioni super-stilizzate, e la fotografia, che da sempre ambisce alla mimesi perfetta. Sovrapponendole -con l’ausilio del computer e con ritocchi manuali- e facendo coesistere le esigenze di riconoscibilità con quelle di astrazione, Opie ottiene una galleria di volti e corpi sempre uguali e sempre diversi.
In mostra presso la galleria Bonomo, in occasione della prima personale italiana dell’artista (fatta eccezione per il progetto speciale realizzato alla Stazione Centrale di Milano nel 2003), un gruppo di opere recentissime. Alcuni ritratti, tra cui il raffinato Anya (2005), in cui le sembianze standardizzate non impediscono alla raffigurata di mantenere fascino e allure sacrale (ha il capo coperto da un velo di pizzo nero); un’animazione in digitale -visualizzata su un monitor al plasma- e una
Tutta la ricerca dell’artista, anche quando si dedica ad altri soggetti (nudi, paesaggi, oggetti o animali), ruota attorno ad un’unica istanza: l’esplorazione sistematica dei codici e delle convenzioni della rappresentazione. Le sue immagini non descrivono il mondo, costituiscono piuttosto una riflessione ininterrotta sul modo in cui l’uomo vede la realtà e sugli alfabeti segnici che ha messo a punto, nel corso dei secoli, per rappresentarla. Vale la pena di citare, come la più azzeccata tra le molte definizioni affibbiate alla produzione di Opie, quella del critico Tom Lubbock, che commenta: “Sono ritratti eseguiti con lo stile della segnaletica stradale”.
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www.julianopie.com
valentina tanni
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