Leggere l’opera di
Susanne Kessler (Wuppertal, 1955; vive a Berlino) equivale a tentare un esercizio filosofico. Henri Bergson vede nello slancio vitale un’origine condivisa da tutte le specie: ciò che permane a livello d’identicità di natura e che va tuttavia declinandosi attraverso linee di evoluzione differenziate. Qui stava la critica del filosofo alla purezza scientista, che pur si distanziava da uno spiritualismo intimista.
È un interessante punto di partenza per descrivere
Synapse. Il significato più diretto dell’opera sta proprio nel nome: le sinapsi del sistema nervoso centrale umano. All’ingresso della galleria, immediatamente visibile, cala dall’alto un intricato groviglio di fili di ferro e rami arborei abilmente intrecciati. Il metallo, forgiato da una probabile macchina per demiurgica decisione umana, e la pianta, frutto di una natura capricciosa e bizzarra, sembrano quasi riproporre il guerreggiare tra natura e cultura. Lotta vana per Kessler, che mescola materiali, offusca i confini, coinvolge lana e frammenti di tessuto, li attacca alle pareti, li precipita dal soffitto.
Nella sala sottostante, l’artista tedesca approfitta della bassa volta per ricreare uno spazio cerebrale in cui la simil-materia neuronale copre le mura, mettendo il visitatore a confronto con la riproduzione visibile della propria attività cognitiva: input e output, catena di reazioni, estensione del pensiero nello spazio artistico a partire da materiale grezzo che simula materia grigia. Alla maniera di Bergson, riterremo l’intelligenza uno schema ordinatore di una realtà altrimenti fluida. L’intuizione, al contrario, continua il filosofo, fugge la materia.
Le installazioni presenti appaiono assecondare quest’ultima opzione. Laddove le terminazioni sinaptiche si spalmano sulla parete e assorbono circondando l’avventore nel piano inferiore, al piano superiore sembrano riavvolgersi su se stesse, in un implodere che precede un’esplosione. Questa sinapsi è allora espansiva: si diffonde da un nucleo centrale per protendersi esternamente. L’intuizione bergsoniana corrispondeva all’istinto, alla folgore creativa, e l’opera della Kessler è tale.
All’ingresso della galleria è riportato un patchwork d’artista di ritorno dall’Iran: un quaderno di schizzi, di prove e progetti. Nuvole di fili, scotch e carta plastificata lasciano intravedere il fascino subito di una cultura mediorientale che si comprende nelle curvature delle linee e nell’esotismo delle lettere persiane, ritagliate e disperse tra le pagine. Non è in un’ottica programmatica che dobbiamo leggere tutto ciò. Non c’è calcolo, ma puro intuito nel modulare le forme e rendere genuina la creazione. Il patchwork è un’opera a sé, prova empirica di un pensiero antecedente l’opera protagonista.
Ma lo spazio è imprescindibile per Susanne Kessler, che opera prettamente in maniera site specific. La “connessione” allora si spiega anche in altro modo: il visitatore è invitato a mettersi in connessione con esso, a farsi nodo anch’egli, a stimolare e a esser stimolato.