Troppo spesso il lavoro di
Nancy Spero (Cleveland, 1926; vive a New York) è stato riduttivamente etichettato con un unico aggettivo: femminista. Sicuramente si è guardato molto alla sua attività di co-fondatrice, nel 1972, del gruppo AIR – Artists in Residence, la prima galleria di New York gestita da sole donne, dimenticando i temi da lei toccati. E cioè la divisione dei ruoli tra uomo e donna, la violenza, il corpo, il sesso, che non sono temi prettamente femminili o maschili ma, proprio perché enucleano la natura umana, dovrebbero esser definiti universali.
La mostra si sviluppa a partire da un’installazione site specific studiata per lo Studio Miscetti, in cui Spero rielabora il mito sumero di Marduk e Tiamat, ricordato come l’aggressione primigenia al femminile, da cui si originò il cielo. Qui, attraverso parole significative e sagome di donna stampate sui muri, l’artista ribalta il senso del mito, condensandolo nella testa appesa di Marduk, per la prima volta considerato vittima e non carnefice. Infatti, “
i rapporti di potere possono essere rovesciati per il fatto che scegliamo di ricordare ciò che alcuni possano ritenere sia meglio dimenticare. Questa è la prerogativa dell’artista”, dice l’artista.
Blue, ossia triste: così s’intitola l’installazione che dà il nome alla mostra, facente parte del ciclo
Maypole. Un’opera che rivela forse, per la prima volta, un po’ di malinconia nel constatare che gli obiettivi della propria lotta sono ancora lontani dall’esser conseguiti, come ha notato Cristiana Perrella in catalogo, ma comunque dimostra che non si è combattuto invano, perché ora è possibile schierare i frutti del proprio lavoro.
Si tratta di una serie di opere su carta, prodotte tra il 1985 e il 2006 con l’uso del collage e delle lastre di zinco inciso. Ripropongono in chiave anche ironica, sicuramente molto irriverente negli accostamenti, una sorta di cronistoria delle donne, mettendo a confronto immagini archeologiche o facenti parte della cultura di antiche civiltà, con pin-up della pubblicità anni ’50, il tutto potenziato da riferimenti esplicitamente sessuali. La danza, elemento ricorrente, viene vista come un modo per liberare il corpo e l’energia, in un inno alla vitalità femminile che dà la vita.
L’auspicio è che questa mostra possa davvero far (ri)scoprire anche in Italia la vita e l’opera di un’artista combattiva ma riflessiva, forte ma delicata, sulla scia dei numerosi riconoscimenti, anche se tardivi, che ha recentemente riscosso a Parigi, a Barcellona e a New York. Nonché alla Biennale di Venezia 2007, cui partecipò proprio con un’opera del ciclo
Maypole.