La parola ‘idolo’ proviene dal greco ‘eidolon’, che ha la sua radice nel verbo ‘eido’, a significare propriamente l’atto del vedere. E proprio a vedere, ad adorare quasi – come si fa con le opere magnifiche dei grandi musei – ci si sente chiamati dall’atmosfera magico-religiosa che
Sebastiano Mauri (Milano, 1972) riesce a ricreare in questo white cube a latere dello spazio romano di Loto Arte, votato al design contemporaneo nelle sue due sedi.
La lapidaria sentenza del titolo (
I Believe in God), un’affermazione che appare quasi stonata e fuori luogo in un’epoca che vorrebbe essere in tutto e per tutto laica e terrena, rispecchia il nuovo interesse di un artista poliedrico che, pur essendosi laureato in cinematografia a New York, conosce le tecniche artistiche “classiche” e si focalizza di volta in volta su differenti aspetti dell’antropologia. Sfogliando il suo portfolio scorrono immagini delle precedenti mostre, con uno sguardo intimo sui volti delle persone, sulle canzoni che amano e che le raccontano, sul rapporto maestro-allievo e molte altre ancora.
In quest’occasione, la sua creatività si dispiega innanzitutto tramite la produzione di un video – omonimo del titolo e unica opera di un artista italiano a partecipare alla decima Biennale dell’Avana – che mostra cento immagini di divinità delle diverse religioni su una piattaforma rotante, accompagnate da inni sacri estranei alla religione rappresentata in quell’istante.
Al centro della sala si trova un grande “tavolo panteistico” su cui sono disposti dei micro- ambienti – in realtà degli altari, per il valore delle statuine che vi sono contenute – r
icavati all’interno di vecchi contenitori usati dagli speziali per immagazzinare agenti chimici o messi sotto vetro in grandi campane realizzate da un artigiano di Napoli, talmente uniche da conservare perfino la “lacrima” lasciata dalla siringa usata per modellarle.
L’effetto ricorda i piccoli presepi, fatti in parte con materiali naturali come aculei d’istrice, sassolini e carta, e in parte con materiali plastici, sintetici e luccicanti, il tutto guarnito da lucine, specchietti, finti mosaici, a creare un’impressione straniante di chiassoso kitsch, tra villa hollywoodiana e cinema di Bollywood.
Mauri dimostra, infatti, un occhio di riguardo per le divinità indiane e per Buddha, che è ritratto addirittura tre volte, anche nelle foto stampate su plexiglas alle pareti, nonché nel
Floating Buddha, una statuina nata come stampo per budini e che l’artista trasforma in un oggetto levitante a mezz’aria grazie a un’interazione di campi magnetici.
Un po’ denuncia di una religiosità divenuta ormai preda del commercio, come testimonia la fotografia di un Gesù caricato a molla, un po’ speranza di una convivenza multiforme e coloratissima tra le varie confessioni, questa personale attira ancor più l’attenzione su uno spazio espositivo fortemente voluto e seguito dalla collezionista Ines Musumeci Greco.