Per
H.H. Lim (Malesia, 1954; vive a Roma), questa mostra rappresenta una tappa importante nell’ambito dei tre grandi macrocosmi progettuali a cui lavora contemporaneamente da diversi anni. Infatti, dopo essersi servito di tutti i possibili media di espressione artistica (dal video alla performance, passando per la pittura e la scultura), qui sceglie di concentrarsi su opere su tavola, lavorate a tecnica mista.
È evidente lo sforzo senza peso che Lim compie nel conciliare l’arte occidentale, “
dominata da un’attitudine che ha permesso alla sua civiltà di tramutare la natura in storia”, e quella orientale, “
da sempre attenta alla proliferazione circolare della vita”, per cui “
ha sviluppato una strategia della ripetizione che riproduce una simmetria tra microcosmo dell’opera e macrocosmo dell’universo”, come scrive Achille Bonito Oliva nel testo in catalogo.
Lo spunto che muove l’artista di origini sino-malesi è senz’altro quello di narrare – con la freschezza e la franchezza di chi la sta vivendo, come tutti – l’odierna crisi politica, economica e sociale del mondo, così come lo conosciamo e com’è stato plasmato negli ultimi decenni, a immagine e somiglianza dei poteri dominanti.
SimSim Salabim (2008-09), dall’emblematico titolo esoterico, è il risultato dell’unione di quattro grandi tavole su cui sono disegnate decine di missili pronti a bombardarci con migliaia d’informazioni a getto continuo e, fuor di metafora, a calare su uno dei tanti, troppi Paesi mediorientali in guerra. Proprio per combattere quest’azione, Lim vi incide parole al contrario, significative e significanti, perché alludono tanto ai titoli di giornale (“
Dopo la grande paura, lo stupore per il miracolo”), quanto a date ormai storiche (“18 novembre 2008”, giorno dell’elezione di Obama), facendosi portatrici di speranza e d’un cambiamento che, anche se non immediato, almeno si avverte nell’aria.
L’artista appare così pienamente coinvolto nel suo tempo, scegliendo, come fece
Picasso dipingendo
Guernica, di prendere posizione e di dar voce alla sua ansia di comunicazione “
con l’intero corpo sociale”. Che però si scontra con “
la coscienza del suo isolamento” (Bonito Oliva).
Probabilmente va ricercata qui l’origine della passione di Lim per l’utilizzo del linguaggio dei sordomuti, di cui si serve in
What a wonderful world (2009), come se potesse dare maggior pregnanza alle parole rappresentative di questo periodo e della politica, italiana soprattutto.
Il terzo nucleo della sua opera, in mostra nello spazio affacciato su via del Corso, entra invece nel personale e nel banale quotidiano, mantenendo però uno sguardo ironico e straniato su di esso, realizzando per di più quell’identità e unità perfetta tra forma e contenuto invano ricercata da molti artisti. Le parole in bassorilievo, anche qui scritte al contrario, richiedono tempo per essere lette e comprese, quasi si potessero sentire sulla punta della lingua.
L’arte diventa per Lim non solo qualcosa che aiuta a vivere, ma un autentico “
pensiero visivo”: “
Il campo dell’armistizio, dell’intreccio e di una felice ambiguità”, per citare ancora Abo.