Più che il consueto faccia a faccia, questa volta si tratta di un dialogo. Un incontro discreto, sul filo di un tema comune.
Ragionava intorno alla natura Mario Merz (Milano, 1925 – Milano, 2003), ragiona intorno alla natura anche Wolfgang Laib (Metzinger, 1950): entrambi partendo da incipit diversi, entrambi trovando soluzioni che non vorremmo definire né discordanti, né complementari. A vincere –su tutto– è l’accostamento silenzioso, l’andirivieni dello sguardo dall’installazione di sapore epico del primo, all’intervento delicato del secondo. Come se l’artista tedesco avesse preferito ritagliarsi una presenza minima -ma comunque significativa– per lasciare la parete migliore all’opera del collega scomparso.
Un gesto rispettoso, questo, senza retorica, piuttosto motivato da un senso di dolente, sincera nostalgia. Perché i due in effetti s’erano già incontrati e conosciuti, a Documenta, nel 1982 e in quel frangente Merz aveva accolto uno dei barattoli di polline di Laib all’interno della propria installazione. Così, è stato proprio l’artista tedesco ad indicare al curatore Ludovico Pratesi, l’amico ormai morto come compagno scelto per il consueto ciclo a due Soltanto un quadro al massimo, ospitato in Accademia Tedesca.
Nuovamente –proprio come a Kassel- Wolfgang Laib ha scelto di utilizzare il polline di nocciolo: due montagnole gemelle, alte poco più di cinque centimetri, collocate su una mensola. Un intervento misurato, intriso d’un afflato elegiaco. La natura di Laib è un mosaico di tasselli preziosi: polline come polvere d’oro, miele o latte come sublimi materie prime; c’è
Quando le piante invaderanno il mondo (1975) è l’opera di Mario Merz, scelta dalla figlia Beatrice per questa mostra: segno possente del maestro dell’Arte Povera, costruito sulla rigida direttrice diagonale del tubo al neon. La luce candida, fredda, rischiara la tela nera, scopre le spirali rosse, la progressione dei numeri segnati in bianco, come un’esile costruzione, su una lavagna. È quasi un crescendo, drammatico. In basso alcuni rami di edera sembrano tracciare una circonferenza, altri guadagnano spazio sul pavimento, altri ancora s’arrampicano, voraci. C’è solo bisogno di tempo, arriveranno fino in cima. E non è casuale, naturalmente, la scelta di questo sempreverde, simbolo di un attaccamento spasmodico, di un abbraccio talmente forte ed inestricabile, da rivelarsi mortale.
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