Entrando nella galleria, la prima sensazione che si ha è che non ci sia nessuna mostra. Piuttosto sembra di trovarsi in un cantiere appena aperto, con gli operai in pausa pranzo. Se non fosse per alcuni quadretti distribuiti con parsimonia sulle pareti, che però sono stati voluti dalla gallerista. L’intenzione era delle migliori: non turbare troppo l’animo del visitatore basic, che si sarebbe trovato eccessivamente spiazzato da quell’impressione iniziale di assoluto nulla. D’altronde, i sunnominati quadretti né aggiungono né tolgono niente al significato dell’insieme voluto dall’artista, che doveva essere dato dalle sole installazioni (o “disegni tridimensionali”, come li chiama lei). È un peccato invece per il visitatore premium al quale, se l’impatto col vuoto desolante della sala fosse stato imposto fino in fondo, la mostra avrebbe regalato con più generosità l’esperienza del vissuto puro. Ed è proprio questa esperienza che ha tentato di ricostruire Margrét Haraldsdóttir Blöndal (Reykiavik, 1970), utilizzando lo strumento fittizio dell’arte, e piegandolo ad una dimensione emozionale che rispetto all’arte viene infinitamente prima.
Il materiale utilizzato a questo scopo è quello comunemente detto “di scarto”: pezzi di camere d’aria, guanti da cucina, stracci, legni, persino uno zerbino bucato. Il tutto ricomposto in modo inaspettato, di primo acchito insignificante, ma che non ci mette molto a gemellarsi con quegli attimi di sospensione del giudizio, di disorientamento, che molti (se non tutti) hanno provato, e dove il senso di ciò che sembrava scontato si dissolve irrimediabilmente. Edmund Husserl, l’inventore della fenomenologia, chiama queste esperienze particolari intenzionalità. L’intenzionalità è il momento in cui ci apriamo alla comunicazione pura da parte dell’altro, persona o cosa che sia, senza l’intralcio di sovrastrutture di significato già codificate.
L’altro allora non ci comunica che una cosa: sé stesso, il suo esserci, la sua pura presenza. Presenza che noi cerchiamo disperatamente di ricollocare in un “orizzonte di senso” definito –o meglio: pre-definito-, pena la follia. E per fortuna, la maggior parte delle volte, ci riusciamo.
A ben vedere, quindi, il materiale utilizzato per ottenere quest’effetto non è da considerarsi tanto “di scarto” rispetto all’uso, ma piuttosto rispetto all’azione. Un’azione che non si riesce a ricostruire, e che lascia interdetti di fronte all’immagine che ci mette davanti agli occhi, estranea da tutto e senza appigli. Ecco allora che le opere si offrono come viatici per rievocare questi momenti fenomenologicamente “epocali”. Là dove l’epoché, per Husserl, è proprio l’istante esatto in cui questa emersione improvvisa si produce, e in cui l’io si rivela perché si rivela un tu. In questo modo, l’esperienza fondativa del tutto si manifesta ab origine e costantemente si ripropone, tutte le volte che una forma si estrania dal contesto e ci riporta in noi stessi, coinvolgendoci nella percezione immediata e non ancora razionalmente consapevole che “noi siamo”.
valeria silvestri
mostra visitata il 5 giugno 2007
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