Sono un pessimo fotografo, va detto. Lo ha dichiarato, laconico e disarmante, Phil Collins (Worchester, 1970; vive a Belfast) in un’intervista pubblicata su FlashArt , qualche mese fa: la macchina fotografica lo fa sentire a disagio, l’atto di fotografare lo imbarazza. Del resto il punto sembra essere un altro: non tanto la qualità formale dell’immagine, quanto quella intrinseca; il taglio è casuale, ma la foto è significativa: l’inquadratura anonima, la tecnica carente riscattano il messaggio, o quantomeno il senso. E Collins ha concluso l’intervista affermando proprio che le domande migliori nascono dalle cose che ci piacciono di meno. Il suo lavoro è un’osservazione attenta e impietosa di alcuni gruppi di persone: dai giovani serbi becoming more like us,agli orangisti, ai newyorkesi del post 11 settembre. Comunità, in un’accezione che è di volta in volta labile, sfilacciata o inquietante. Al concetto di comunità vacante è dedicata la mostra collettiva (dodici artisti tra cui Phil Collins) ospitata negli spazi della
Soprattutto emerge la sostanza inafferrabile del disagio, raccontata con modi e linguaggi differenti da un esemble di artisti abbastanza eterogeneo: dall’algido Thomas Struth (Gelden 1954), alla Cina contemporanea secondo Weng Fen (Hainan, 1961), agli imprevedibili scenari nordici di Joachim Koester. Dallo sguardo cinico di Philip Lorca di Corcia (Hartford, 1953), al racconto video lucidissimo di Maja Bajevic, alle spiagge e ai parchi affollati di Massimo Vitali (Como, 1944), al quotidiano, insignificante, fermato negli scatti di Stephen Waddel (Vancouver, 1968). Alla serie di primi piani di Annuschka Blommers & Niels Schumm: silhouette nere, come campiture uniformi.
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