Immagini e parole si fondono in un unico corpo sulle pareti delle stanze che accolgono la prima personale del fotografo romano Paolo Soriani.
Le forme dolci e ondulate della scrittura si accostano, accompagnando quasi come un contrappunto, le linee curve delle cupole delle chiese dell’isola di Procida, avvolta in un biancore abbacinante.
L’idea nasce proprio dall’esperienza vissuta su quest’isola, esperienza dalla quale lo scrittore ricava i suoi versi delicati, mentre l’obiettivo cattura quelle che non sono semplici immagini, ma giochi di luce ed ombra, senso del colore, incastro di superfici
L’isola è infatti il tema sul quale si concentra parte della ricerca di Soriani, l’isola vista non solo come luogo fisico, ma anche come elemento interiore, condizione dell’anima. Ed è esattamente questo che si ricava osservando le fotografie di Soriani: non volti, cose, oggetti, ma sensazioni.
Decisamente diverso il discorso per la serie a colori, in cui le superfici dei muri scrostati, corrosi dall’usura del tempo e dell’uomo, non regalano alcun punto di riferimento, alcun dettaglio riconoscibile e fisicamente collocabile. Qui l’astrazione è pura, definitiva. Soriani si concentra ora solamente sulle superfici, sui giochi di colore e forma che ne trasformano i materiali, suscitando e quasi suggerendo all’osservatore, la sensazione di essere di fronte a dei veri e propri paesaggi che il fotografo si è divertito a manipolare e trasformare. Paesaggi o sensazioni di paesaggi, chiaramente accompagnati, anche in questo caso, dalla parola – controcanto del padre Vittorio.
Il senso ultimo della mostra è dunque di unire i due linguaggi, la parola e l’immagine, la poesia e la fotografia, tecnicamente diversissimi ma emotivamente vicini, usando le parole come “segni di una iconografia astratta e le immagini come forme poetiche”.
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