Come nel pistrice che inghiottì
Giona. Si varca la soglia di un ventre oscuro dove risuona cupa la scansione
cadenzata del cuore. Un ventre azzurro. Dello stesso colore dell’universo in
cui naviga l’immenso e famelico pesce, tra cielo e oceano. Un ventre che si
contorce in lobi e anse dove ci si può imbattere in enigmatiche e stranianti
visioni, illusioni, idoli.
Frammenti di pane ne costellano le
pareti come testimonianza di un processo arcaico di assimilazione del mondo. Elementi
primari ed evocativi si mescolano come fluidi gastrici, impregnati dai simboli
che in essi vi sono disciolti. Così quei fluidi si fanno tinta. E tingono.
Tingono i volti, le mani, gli oggetti, le pareti. E soltanto solidificandosi
assumono la definitiva forma del linguaggio di
Michele Zaza (Molfetta, Bari, 1948; vive a
Roma).
Il suo
Universo viene rivelato attraverso la
trasfigurazione del corpo: del “proprio corpo” che si proietta nella penombra
della galleria come l’archetipo di una spiritualità primordiale. In una
proiezione iterativa a ciclo infinito compare il volto dell’artista celato
dietro una intensa tinta blu sulla pelle, a suggerire una presenza sciamanica.
Un volto che a sua volta si nasconde dietro mani intente a vibrare, come
avvinte in un incontenibile flusso di energia.
Il “proprio corpo” può contenere
tutte le cose del mondo e tutte le cose che abitano in lui esistono
nell’universo. Ecco dunque che, nell’oscurità delle viscere, si incontra
un’altra presenza, simmetricamente disposta secondo un immaginario asse di
simmetria. Presenza equivalente, elemento del proprio corpo come forse
null’altro, in quanto da esso stesso generato: sua figlia.
E quell’asse immaginario, quella
linea teorica che trafigge i ventricoli di questo spazio fisico è forse proprio
la corda magica che nella cosmologia tibetana collega “la terra al cielo come
un
axis mundi”.
Dunque, i poliedrici ambienti
della Fondazione Volume! divengono per un istante organo vitale di Michele
Zaza, reinventati in un’istallazione site specific che li coinvolge con
proiezioni, suoni e oggetti. Elementi che sono propri dei suoi lavori di
seconda generazione, affrancati dalle esperienze della fotografia concettuale,
di cui pure è stato protagonista fino alla metà degli anni ‘70.
Da allora, Zaza ha esposto a
Parigi nel 1976, e poi a Zurigo, Monaco. Ha partecipato alle Documenta 6 e 7 di
Kassel. Nel 1980 ha tenuto una mostra a New York, e ha partecipato con sala
personale alla Biennale di Venezia. Negli ultimi anni gli sono state dedicate
importanti mostre personali a Mosca, Roma, Ginevra.
Ed è proprio dai suoi lavori più
recenti che ha indirizzato l’immaginazione verso quella definitiva irruzione
della dimensione sacra e metafisica che sembra affiorare come la supplica di
Giona emergeva dagli abissi.