L’ultimo lavoro di Serafino Maiorano (Crotone, 1957) in mostra presso la galleria Traghetto di Roma, mette in scena un ripensamento interiore dell’Ara Pacis Augustae e dell’edificio di recente rifacimento (opera dell’architetto statunitense Richard Meier), che ingloba lo storico monumento. L’idea è quelle di un involucro immateriale, di un luogo dentro ad un altro luogo che sprigiona il fascino imprendibile di un sostanzioso salto temporale. Da qui a edificazioni di contesti privati che palesano il sentimento dell’esterno, facendolo respirare in trasparenza come sintomo di atmosfere intangibili ma pervasive. Le immagini sono velate da scansioni spaziali che si sovrappongono; ci riportano attraverso le tenui dissolvenze dei colori ghiacciati, ad aperture interne rivestite di architetture reali. Sembra gravare nell’aria la sensazione dell’attesa, dell’irrisolutezza che attraversa le pareti e solidifica la metrica visiva. La possibilità di spingersi sempre un po’ più in là, assorbiti dal bianco senza fondo. L’immobilità apparente è rarefazione del pensiero, un punto di vista dal di dentro e al di sopra nello stesso istante, uno sguardo pacificato ma compreso dall’inquietudine. Il che equivale ad un universo intimo complesso e privo di refusi. Il movimento invece è fremito costante, una musicalità omogenea nel suo ripetersi senza eccessivi sbalzi. Qualcosa di più simile ad un mormorio che accumula rumori di passi, voci indefinite, echi metropolitani. Ma tutto ciò non rimanda al caos: si avvicina invece agli arrangiamenti musicali di artiste nord europee come Anja Garbarek o Stina Nordenstam, dove la sensualità sommessa delle voci si fonde all’introversione, a quel ripiegamento interiore che pervade l’esterno attraverso atmosfere fragili, corporee, intrise di misticismo e orchestrazioni minimali, che attingono al fascino di sonorità simili a pelli diafane.
Ci si interroga sulla necessità di quegli interventi manuali sul corpo compatto della stampa digitale. Ciò che da uno sguardo ravvicinato può sembrare superfluo, da lontano è compreso da una visione d’insieme, e diventa significato.
Le sporadiche pennellate di pittura ad olio mettono in vibrazione l’intero spazio, enfatizzando le trasparenze, drammatizzando il contesto con un tocco quasi acqueo che dispiega movimento. Le immagini, così concepite, sembrano annunciare qualcosa a noi prossimo, ambiguo tra scomparsa e illuminazione.
daniele fiacco
mostra visitata il 6 aprile 2007
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