Giancarlo Pediconi (Roma, 1937) -architetto di professione con la passione per la fotografia- espone, raccogliendoli in un’antologica, gli scatti prodotti durante tutta una vita. Architetture che l’autore ha lungamente inseguito, così da coglierle nel momento ideale. In flagrante, come recita il titolo della mostra. Sono fotografie che non si preoccupano di raccontare con piglio documentario le strutture architettoniche, ma vogliono restituircele come focus, tramite elementi simbolici tipici della poetica dell’artista. Su tutti il tema della metamorfosi e quello -strettamente connesso- dei rapporti formali tra luce e ombra. Egli indaga pretestuosamente i vuoti, gli elementi strutturali, le forme classiche di città come Roma, Agrigento, Paestum (a proposito, quanto e con che qualità qui rivive Giuseppe Cavalli), così come le conformazioni degli spazi urbani. Ancora di Roma (svelata nelle sue periferie e colta in alcuni scorci della stazione Termini), ma anche di Parigi, Berlino, Barcellona e soprattutto di Dubai, restituita in vedute grandangolari e dal basso. Punti di vista che ci fanno sentire piccoli, ma protagonisti, di fronte a un mondo in continua costruzione. Tra mille nuove e inquietanti babylonian towers.
Pediconi, inquadrando brani architettonici tra i più vari, non vuole rappresentare uno specifico episodio di architettura, contestualizzabile diacronicamente, ma ci racconta la propria visione, suscitata da ciò che l’uomo produce: i luoghi da abitare, attraversare, vivere. Egli sa bene quanto la fotografia sia prima di tutto strumento di interpretazione piuttosto che di restituzione realistica. E non è un caso che l’abbia scelta come linguaggio privilegiato di espressione. L’ha fatto perché ha compreso quanto l’architettura sia integrata alla fotografia, quanto ne sia addirittura pesantamente condizionata nella fase progettuale, in quella di lettura degli spazi.
Fino a risultarne a più livelli compromessa persino negli obiettivi, che al di là delle esigenze funzionali puntano sempre di più al raggiungimento di una fotogenia apprezzabile. Questo aspetto invasivo del fotografico impressiona in quanto fatto rilevabile in ogni manifestazione del contemporaneo, così come in ogni espressione culturale e perfino individuale. Pediconi possiede questa consapevolezza come deposito determinante dal quale trarre il soggetto, ma del quale liberarsi ogni volta che, in fase di inquadratura, sceglie un particolare e non un’altro, un effetto di luce e non un’altro, un’emozione provata e solo quella. Diluendo così la propria sapienza tecnica nell’assecondare quell’ostinazione e quell’istintività di chi sa davvero cos’è la fotografia.
Redazione Exibart
mostra visitata l’8 febbraio 2007
[exibart]
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