Roma, 5 maggio 2004: una pioggia torrenziale colpisce la città, amplificando il tono catartico dell’intervento Students’ Bodies, realizzato dalla classe di Marina Abramovic presso la galleria Volume!
L’evento atmosferico incarna pienamente l’ideale pedagogico dell’artista – Cleaning the House – riferito alla funzione liberatoria e purificatrice della performance. Il training, a cui si sottopongono gli allievi della scuola di Braunschweig (Germania), prevede un periodo d’isolamento in condizioni climatiche avverse, per favorire la totale depurazione di sé. Il gruppo di giovani asceti sperimenta il silenzio, il digiuno, la perdita di orientamento, per intensificare la percezione e saggiare i propri limiti psico-fisici: pratiche di chiara matrice zen e New Age, molto diffuse negli Stati Uniti tra gli anni ‘60 e i ‘70.
A tale proposito, Abramović ripropone l’immagine del deserto, tipicamente americana, quale spazio minimo, filtrato da tutte le scorie superflue che inquinano l’esistenza. Al tempo stesso, questa condizione di apparente neutralità consente di affinare al massimo le antenne sensibili, senza traslare all’esterno la propria imago mundis, ma lasciando che la realtà si manifesti spontaneamente.
Pertanto, la performance ideata dai suoi allievi per Volume! assume le coordinate dell’ambiente, declinandole nella veste molteplice di un’azione collettiva. Ciascun performer capta ed interpreta, con assoluta originalità, il potenziale espressivo del luogo: Eun-Hye Hwang esaspera la sua enfasi istituzionale, riconducibile all’accezione tradizionale di spazio espositivo; armata di fischietto, ammonisce con un categorico No! chiunque violi la sacralità dell’arte, assumendola come fine puramente pretestuoso, o semplice entertainment.
Plateale il gesto di Doreen Uhlig, che incide a colpi di scalpello la scritta Smetto sulle pareti della galleria, a significare la necessità di una svolta nel segno dell’inazione, contraria alla nevrosi contemporanea del fare. Heeijung Um invita a riflettere sul significato di spazio pubblico, fingendo la presenza di un albero di limone (A Lemon III), addossato al muro. La sua posizione ostacola il flusso dei visitatori, costretti a misurarsi con l’essenza problematica dell’altro, in modo analogo alla celebre performance di Abramović e Ulay a Bologna nel 1976: entrambi nudi, in piedi sullo stipite d’ingresso al museo, bloccavano il passaggio come statue viventi, aliene e imperscrutabili.
Il ribaltamento di prospettiva tra interno ed esterno, pubblico e privato caratterizza il lavoro di Viola Yesiltac, visibile da una finestra che affaccia sul cortile interno dell’edificio. Lo spazio sembra allestito per un set fotografico, in cui l’artista posa davanti ad un fondale verde, con le spalle rivolte al pubblico; le sue movenze impercettibili rompono la staticità della scena, accentuando il margine tra mimesi e realtà. Herma Auguste Wittstock è, a sua volta, protagonista di un’azione alquanto paradossale: The Sprint. Contrariamente allo slancio dinamico suggerito dal titolo, l’artista intraprende un percorso lentissimo che si svolgerà nell’arco di due ore, come un’immagine alla moviola.
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