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L’irrinunciabile esperienza dell’opera

di - 8 Aprile 2013

Per chi ha ancora negli occhi la dilatazione dello spazio della Neue Nationalgalerie di Berlino, e il rispetto della ariosità dell’edificio di Mies van der Rohe, grazie alla trama del tappeto/ moquette dalle tonalità fredde che ben si armonizzavano con le atmosfere della capitale tedesca in “Live” (2010), sarà una esperienza forse ancora più intensa ritrovare  a Venezia la capacità straordinaria di Rudolf Stingel di adattarsi ai luoghi e di interpretarli magistralmente. Con le tonalità ora calde e così orientali di un tappetto che ha trasformato l’intero Palazzo Grassi in un intervento site specific, la cui monumentalità non è affatto a discapito dell’intimità.
Cinquemila metri quadrati che ricoprono letteralmente ogni superficie calpestabile nonché tutte le pareti e ci fanno rivivere l’esperienza del raccoglimento, del silenzio, del respiro trattenuto, del passo, letteralmente, felpato che indugia sulla vertigine delle trame che si stanno calpestando mentre lo sguardo continua a seguirle lungo le pareti. Gli scorci fra porta e porta restituiscono il senso labirintico di un luogo circolare, sempre diverso e sempre identico a se stesso: «una topografia dell’inconscio» (Elena Geuna). Dall’atrio alla grande scala fino all’ultima area espositivamente percorribile il palazzo è completamente rivestito, trasformandosi in una sorta di tempio dalle stanze innumerevoli, in grado di trattenere a tal punto l’attenzione che nemmeno la visione della città che traspare dalle grandi finestre delle sale sul Canal Grande riesce a distrarci.
Per una volta l’intensità dello spazio interno, quel che è dentro il palazzo, riesce a bilanciare ciò che è fuori, così da non distoglierci  dal percorso alla scoperta di una stanza ancora. Vi è stata una cura certosina nell’allestimento, nei dettagli accurati con cui il tappetto/moquette è stato disteso, verticalmente e orizzontalmente, a coronare ogni singolo stipite di porta, ogni orlo di balcone in pietra, ogni linea fra parete e parete. Il percorso è costellato da molte opere di Stingel, su tela e su lino, la gran parte delle quali recenti e recentissime, di grande formato quanto di formato ridotto, in tonalità fredde, metallico-argentee, quelle astratte, e nella scala dei grigi quelle fotorealistiche che riprendono le riproduzioni in b/n di statue lignee di santi e sante, e altre immagini votive.

Forse non si poteva indicare in modo più netto e coinvolgente che l’arte ha a che fare, ancora, con le questioni ultime, con ciò che riguarda il venir meno, il sacrificio, la gloria e la loro indissolubile connessione con il biografico (si veda l’intenso ritratto dedicato all’amico Franz West), e con l’autobiografico (il ritratto di Stingel medesimo, la cui origine è una anonima foto d’identità, con i segni dei timbri e dei sigilli impressi dalla funzionalità burocratica sulla mestizia, e sulla concentrata malinconia dell’artista).  Con puntualità nei testi che accompagnano la mostra sono state ricostruite le relazioni fra quest’opera con il contesto del palazzo, per sottolineare come la specificità del progetto nel suo complesso non riguardi la sola dimensione spaziale, ma anche quella temporale. È il caso del richiamo fatto da Elena Geuna (collaboratrice di Stingel per la realizzazione del progetto) alla conduzione mecenatistica che ha contraddistinto negli anni Sessanta la produzione espositiva al Grassi sotto la direzione artistica di Paolo Marinotti. Grazie al quale, per la mostra “Arte e Contemplazione”, Lucio Fontana ha potuto proporre il ciclo degli undici olii dedicati a Venezia. Quasi quasi verrebbe da citare proprio le parole scritte a suo tempo da Marinotti: «L’arte è l’universo, l’uomo è nulla, l’arte è tutto; ma allora, in questa relazione, l’uomo è tutto ed è supremazia completa nell’ambito di un mandato e di una trascendenza». Era un’altra stagione, i primissimi anni Sessanta, e difficilmente si potrebbe affermare ora con la medesima forza che “l’arte è tutto”. Però non ci si può nemmeno nascondere che il richiamo fatto a quella stagione là, implica una rilettura di Venezia oggi, e del ruolo che può esservi svolto da una, non meno intensa di allora, relazione fra mecenatismo e arte contemporanea.

È un aspetto assai delicato certamente, perché comporta una assunzione di responsabilità culturale non da poco. D’altronde è evidente che un progetto simile può essere realizzato solo se qualcosa tiene insieme le visioni di un artista con la capacità di crederci fino in fondo da parte di chi lo deve supportare in un’impresa del genere. La mostra, sono dati che meritano essere richiamati, è la più ampia personale dedicata in Europa a Stingel, e «la sua prima personale in un museo italiano dopo quella del Mart del 2001». Dati di rilievo certo, che rendono ancora più unica questa esposizione. Forse per questo vale la pena di ritornare sui propri passi, contemplare qualche altra stanza, questa volta con il viatico di una eco mitteleuropea e freudiana, influssi questi d’altronde ben presenti nel lavoro dell’artista sudtirolese. In fondo è del passeggiare nell’interiorità che si tratta, in una sorta di vastissimo quanto intimo palazzo dell’anima.

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