C’è uno struggente, emozionante, vocabolario di posture fisiche, e verbali, che mettono in moto mondi arcaici e a noi ancora vicini. E antico è il dialetto stretto siciliano, densamente musicale, col quale un uomo si esprime, forse sognando, forse delirando, o forse realmente presente. Ingaggia un dialogo dapprima deferente, poi supplicante, infine furente, con un’autorità ecclesiale rappresentata da una silhouette muta – solo un abito, un paio di scarpe e una campanella – poggiata su una poltrona. Su questa figura autorevole riversa desideri, aspettative, richieste, rancori, invettive, accuse. Accanto c’è un’esile croce verso la quale, a tratti, si rivolge parlando a un Cristo immaginario fino ad assumere un’identificazione col Suo sacrificio.
Quello dell’uomo è grido di dolore, richiesta di misericordia, di riscatto, di liberazione. Urlo di abbandono. In questo corpo in ostensione di chi conosce la miseria della vita, la povertà delle parole, l’umiltà delle ferite, e di chi ha visto la morte; in questo corpo in cui vibra l’innocenza dell’anima, la purezza dello sguardo, la semplicità dei gesti, la sincerità della fede popolare, vive una memoria famigliare che affiora nel racconto straziante che segue al soliloquio iniziale. Rievoca la sciagura che gli ha tolto i suoi affetti più cari lasciandolo solo al mondo.
Questo secondo monologo, che coincide con un cambio di scena dove un fascio di luce illumina una sedia sulla quale s’attarda l’uomo, si carica di un’altra emozionante partitura di gesti, di una drammaturgia di espressioni di bocche, di mani, di braccia, di passi esitanti, di piegamenti trattenuti, di ginocchia a terra, di sudore della mente e del cuore, a opera di un attore di intensa forza espressiva, di meticolosa morfologia fisica, anzitutto, e interiore: Fabrizio Ferracane, che ha il volto ora triste, ora dolente, ora furioso, ora angelicato, di un “povero Cristo” di verghiana memoria.
È su di lui che l’autore trapanese Rino Marino ha costruito questo potente testo Orapronobis, in scena alla 39ma edizione delle Orestiadi di Gibellina, sabato 25 luglio, racconto di un mondo di ultimi che evoca stratificazioni ataviche di una terra – e s’odono litanie di donne in preghiere, rintocchi di campane, voci di bambini e di antiche filastrocche – che racchiude tutta la sofferenza dell’essere umano.
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