Categorie: Teatro

Un figlio del nostro tempo, di ieri e di domani, al Teatro Due di Parma

di - 22 Ottobre 2021

Ben si adatta al momento di perdita degli ideali, e non soltanto, ieri come oggi, il ritorno sulle nostre scene di Ödön von Horváth, beffardo scrittore del periodo di crisi tra le due guerre mondiali, perseguitato dal Terzo Reich prima di morire prematuramente a 37 anni, travolto dalla caduta, per un fulmine, di un albero centenario, nel 1938 a Parigi. Semisconosciuto in Italia, ma un classico in Germania e in Francia, lo scrittore austriaco di origine ungherese con la sua critica sociale non meno corrosiva di quella del suo contemporaneo Brecht, ha segnato il teatro del ‘900 prevedendo con lucidità la nascita delle condizioni ideali per lo sviluppo del nazional-socialismo. Fine del suo lavoro era, secondo la sua espressione, lo «Smascheramento della coscienza», lo svelamento di una società che tiene il popolo in uno stato di alienazione e deprivazione. Ma soprattutto (e il periodo lo imponeva) la denuncia dei falsi miti del nazifascismo. Lo ha fatto con uno stile popolare e raffinato, vivace e di sottile ironia, mettendo in luce la stupidità e volgarità umana e, con spietatezza, un mondo abietto, colpevole, senza redenzione.

Un figlio del nostro tempo, photo Andrea Morgillo

Si deve alla Fondazione Teatro Due di Parma una più approfondita conoscenza delle opere di von Horváth, grazie a una frequentazione che in questi anni ha visto la messinscena di una trilogia che comprendeva Fiabe del bosco viennese, Gioventù senza Dio e Fede speranza e carità. A proseguire lungo il solco di un teatro di “impegno ideale” – impegno che era anche alla base di tutte le opere dello scrittore -, è ora Lucrezia Le Moli, alla sua prima regia teatrale con Un figlio del nostro tempo (adattamento insieme ad Amedeo Guarnieri), romanzo pubblicato nel 1938 e subito proibito dalla censura.

Attiva come videomaker documentarista, Le Moli ha portato in scena il suo linguaggio visivo, cinematografico, caratterizzando l’allestimento con ingegno creativo ed efficacia. Insieme a una scura parete frontale specchiante – che, illuminata dietro, svelerà l’interno di una stanza, si aprirà su una porta e dei corridoi -, due grandi schermi laterali supporteranno il racconto con proiezioni video di luoghi e persone in dialogo con gli interpreti tra memoria e presente. Le prime immagini, entrando in sala, accompagnate dalle musiche di Enrico Padovani ispirate ai paesaggi musicali di Erik Satie, sono quelle di volti giovanili in primissimo piano. Sono ragazzi del nostro tempo, per sintonizzarci con la storia di un giovane qualsiasi, senza nome, collocato in un “non luogo” e perciò in un’epoca sospesa. Il romanzo di Hovart, infatti, è ambientato in un momento non identificabile con nessuno dei due conflitti mondiali (che l’autore neanche vivrà), e perciò temporalmente collocabile in una guerra che potrebbe essere di ieri, di oggi, o di domani.

Un figlio del nostro tempo, photo Andrea Morgillo

«È freddo, questo è il mio primo ricordo». Questa sensazione accompagna il protagonista, un gelo che avvolge il paesaggio morale e naturale che lo circonda. L’anonimo soldato chiamato A. è figlio di un’altra guerra, orfano precoce, disoccupato, che trova speranza di riscatto nell’ideologia nazionalista e nell’esercito, ossessionato com’è dal bisogno di omologazione, di appartenere alla società. L’esercito per lui è dapprima occasione di riscatto, poi strumento (unico possibile) per la piena realizzazione di sé e infine amara disillusione, il cui smascheramento, però, lo lascia smarrito, in balia di sé, ostaggio del nulla. «La guerra è la madre di tutte le cose», ripete incessantemente. Ma la mattanza della guerra, la menomazione a un braccio, il suicidio del suo comandante, insieme ad altri eventi disseminati di incontri inquietanti e grotteschi, tra cui donne mai rassicuranti, costituiranno dei traumi che faranno maturare in lui dubbi e odio di fronte ai meccanismi autoritari e all’evidenza dell’ingiustizia impunita, mettendo in crisi le sue convinzioni. Fino a una rivolta autodistruttiva.

Scritto in forma di monologo/dialogo interiore con accenti poetici che contrastano con gli assunti dogmatici, lo svolgimento della messinscena è tutta percorsa da disincanto e da una sorta di ironia sottotraccia, da bagliori dai toni romantici o espressionistici, restituiti dalla bella prova degli otto attori dell’Ensemble del Teatro Due (che quest’anno festeggia i 50 anni di vita) con in testa il protagonista Alessio Del Mastro, e Cristina Cattellani, Laura Cleri, Paola De Crescenzo, Davide Gagliardini, Luca Nucera, Nanni Tormen, Emanuele Vezzoli.

Un figlio del nostro tempo, photo Andrea Morgillo

Con l’ausilio dei video che restituiscono lampi di memoria, la storia procede per fotogrammi accompagnata da un narratore-demiurgo (Luca Nucera) che illustra, descrive, ricorda, riportando al presente le azioni. La regia di Le Moli, oscillando tra dramma psicologico e favola, tra reminiscenza e tentativo di comprensione – «Da acritico sostenitore del sistema il giovane giunge a comprendere l’immensa importanza del pensiero e delle riflessioni individuali alla base di un cambiamento di coscienza», leggiamo nelle note di regia – fa di Un figlio del nostro tempo uno specchio che ci induce a fare i conti con il nostro passato e, soprattutto, con il nostro presente.

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