Alla domanda del sondaggio di Exibart su Anni ’70. Il più grande era…, più della metà dei votanti della community ha optato per Andy Warhol (Pittsburgh 1928 – New York 1987). Fra i miti della Volkswagen, nello spot che lancia la nuova Golf, c’era lo slovacco d’America, accompagnato da John Lennon e Marilyn Monroe. Potremmo continuare con infiniti esempi. Se non proprio alla ribalta, c’è quello che riguarda la stessa Pop Art, poiché qualcuno ha correttamente sottolineato come molti stilemi che si attribuiscono abitualmente a Warhol e alla Factory, in realtà si dovrebbero far risalire all’ambiente inglese. Ma la questione rischia di avvitarsi in diatribe che perdono di vista il punto centrale, vale a dire la diffusione delle immagini della cultura di massa. Se l’“intento” comune era far leva su un immaginario occidentale diffuso, allora proprio una riflessione “élitaria” come quella dell’Indipendent Group rischia di costituire una contraddizioni in termini, aldilà di ogni giudizio di gusto.
Esulando da dibattiti e dialettiche che tendono a coinvolgere solo gli addetti ai lavori, veniamo al personaggio che occupa un posto nella memoria di chiunque abbia sentito parlare d’arte contemporanea.
Un Warhol che recentemente è stato Global in una mostra salernitana, oppure Super nella mastodontica retrospettiva al Principato di Monaco. Alla galleria In Arco non è niente di tutto questo. Tuttavia non è una esposizione da poco, poiché copre un arco di tempo che va dal 1955 al 1987. Proprio agli esordi pre-pop appartengono alcuni lavori assai interessanti e rari, come le quattro serigrafie colorate a mano per The Gold Book (1956) e gli acquerelli per In the Bottom of my Garden (1955). Un buco nero di un ventennio ci porta agli acrilici e alle serigrafie della fine degli anni ’70, come lo splendido Norman Fisher (1978), giocato su un tono su tono scurissimo, per cui il ritratto è visibile quasi solo in alcune prospettive e con un adeguato schermo della luce diretta. In un flusso più regolare si snodano altri progetti warholiani più o meno noti, dai Personal Projects, monotipi su carta mai commercializzati che danno il titolo alla mostra, ad esempi delle serie Cowboys and Indians (1986), Camouflage (1987) e Ten Portraits of Jews form the 20th Century (1980), con i volti di personaggi come Sarh Bernhardt e Martin Buber, Gertrude Stein e Hallie May Frowick. Da notare alcuni Space Fruits (1979), dove emerge un lavoro sulle ombre e sulle forme che solo quasi dieci anni più tardi si svilupperà con folgorante evidenza. Allo stesso modo, suscitano curiosità le Kachina Dolls (1986) realizzate su “Lenox museum board”, con motivi totemici e sagomature ricercate, frutto di studi non superficiali sulle tradizioni dei pellerossa coniugate con cromìe acide.
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