Joël Tettamanti (Efok, Camerun, 1977. Vive a Les Breuleux, Svizzera) fotografa nei luoghi geografici e climatici più disparati. Dal deserto kuwaitiano alle nevi perenni. Ghiaccio e neve che si ripropongono nella serie dedicata ai Cols alpins o in quella recentissima realizzata a Niseko. Per la sua prima personale italiana presenta, invece, la serie di scatti di Qaqortoq (2004). È il nome di una cittadina che ha un paio di secoli e mezzo, nella quale attualmente abitano circa 3.500 persone. E’ il maggior centro della Groenlandia meridionale, località turistica e portuale, il cui nome significa “il bianco”. Come in ogni sua serie, anche in questo caso Tettamanti pare disinteressarsi della figura umana. Opera una sottrazione del vivente che gli permette di concentrarsi con maggior attenzione sugli elementi formali, in un ambiente nel quale la figura costituirebbe probabilmente un elemento superfluo, un pleonasmo.
In questo senso, l’indagine di Tettamanti è differente dalla desolazione registrata da Dagur Kári nel film Nói albinói (2003). Infatti, se il regista faceva emergere in maniera drammatica e grottesca la solitudine quasi autistica degli abitanti della cittadina islandese, nel caso delle fotografie di Tettamanti l’umano è, lo ripetiamo, addirittura rigettato come orpello, inutile anche e soprattutto ai suoi stessi manufatti, si tratti di case o mezzi di trasporto, di una jeep coperta da un sottile strato di neve e ghiaccio o di una centralina elettrica sulla quale i graffiti con nomi e date paiono reperti di una Lascaux contemporanea.
Ovviamente emerge la difficoltà di vivere in luoghi tanto estremi, ma la qualità formale degli scatti si scrolla di dosso ogni intento sociologico e rende l’estetica autonoma rispetto a qualsivoglia pretesa di psicologia visiva. Prendiamo a esempio la cappella del paese. Da un lato abbiamo la riflessione esistenziale, con un punto di vista nello scatto che evidenzia la mancanza di porte o finestre nel piccolo edificio cubico, dunque una resistenza e una sorta di chiusura in sé stesso anche dell’elemento consolante per eccellenza, la religione; dall’altro lato, colpisce ancor più la qualità strettamente formale della fotografia, giocata su una linea spezzata creata dai tetti, sul rosso cupo di alcune pareti, sul candore invedente della neve e il grigio cupo del cielo. Questo secondo aspetto risalta ancora maggiormente negli scatti notturni, con tempi d’esposizione molto lunghi che creano striature di stelle che solcano la volta celeste, mentre le luci dei lampioni e delle finestre si riflettono sulla neve creando un’atmosfera fantasmatica e di una luminosità lattea, ospedaliera. Così, la qualità formale torna a cedere il passo all’impressione e al ricordo filmico, per esempio ad alcune scene dell’insuperabile The Thing (1982) di John Carpenter. E anche in quel caso, la presenza umana era superflua.
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