Purtroppo è durata pochi giorni l’installazione di Jimmie Durham (Arkansas, 1940. Vive a Berlino) all’esterno della galleria di Franco Soffiantino, a causa di qualche vandalo del quartiere che ha fatto temere per l’incolumità dell’opera. Un’Ape Piaggio che cedeva, schiantata, sotto il peso inesorabile di un enorme masso posto sulla zona di carico (Untitled, 2004). È questo forse il primo significato del titolo della mostra, Le ragioni della leggerezza: essa ha le sue ragioni, i suoi raziocini, il suo relativismo. Ma sicuramente non è così semplice. Le installazioni sui due piani della galleria -quello seminterrato è stato inaugurato proprio in occasione della personale dell’ex militante dell’American Indian Movement-, le fotografie, i disegni esprimono altresì la leggerezza del materiale povero, naturale, recuperato per esempio sul fiume Po, nei pressi di Palazzolo Vercellese nel novembre del 2004 e ancora poco prima dell’inaugurazione. Si tratta in gran parte di pietre, verde e rossa, granito lavanda e marmo bianco, che fra desolazioni inquinate e abbandono del territorio, costellano le rive del corso d’acqua. Sono sufficienti pochi elementi per andare a costituire composizioni fra due e tre dimensioni, insieme alle fotografie delle “performance”, specchi infranti, pannelli colpiti, tappeti impreziositi dal regno minerale (Decorative Stones for the Home, 2004), scrivanie oppresse da pesanti lastre (Black Shale on European Wood, 2004).
In realtà, il titolo della mostra è una citazione dalle Lezioni americane di Italo Calvino. Difendere le ragioni della leggerezza mostrando l’arroganza della pesantezza, come un contrappasso alla realtà. Ma anche in questo caso sarebbe forse troppo semplice, perché come ci ha insegnato Kundera, anche la leggerezza può essere “insostenibile”. Le pietre millenarie hanno una storia tenace, però la loro ottusità quasi tenera riporta a una sensazione quasi umana di condizionamento del tempo. Il curatore Roberto Pinto sviscera dunque l’ambiguità strutturale della poetica di Durham, il fatto di non proporre soluzioni e tesi, ma di gettare nello smarrimento affinché venga cercata la propria strada. Così aveva intitolato il workshop e la mostra di fine corso alla Fondazione Ratti rispettivamente Pietre scartate dal costruttore e Surely we will be confused. Ecco, forse lo snodo risiede appunto in quel “noi”. Non si tratta di una maieutica socratica, dove l’“allievo” impara grazie alla destabilizzazione delle sue idee preconcette da parte di un “maestro” in qualche modo onnisciente. Al contrario, il primo a mettersi in gioco è proprio Jimmie Durham, sia durante il corso che nell’ambito della mostra. Per ciò lascia ad esempio che sia il tragitto gravitazionale delle pietre a dipingere i suoi supporti. Indicando che proprio nella pesantezza della caduta si produce un effetto eminentemente lieve.
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