Al Filatoio di Caraglio la scorsa primavera è stata allestita un’autentica antologica di Vittore Fossati (Alessandria, 1954), con lavori che andavano dalla seconda metà degli anni ’80 ai più recenti. In questa scia s’inserisce la piccola ma stimolante personale da The Box, che ha spesso un legame privilegiato con gli spazi del cuneese. Se al Filatoio si trattava dunque di consacrare finalmente il corpus del lavoro di Fossati, figura eminente della cosiddetta “scuola di paesaggio” nostrana, e in particolare della filiazione che vede come capostipite Luigi Ghirri (Fossati ha partecipato a diversi progetti di Ghirri, sin dal 1979 con Iconicittà), gli scatti presentati nella galleria torinese si concentrano invece sulla produzione più recente.
Ploumanach (2002) fa parte del progetto “Viaggio in un paesaggio terrestre”, lavoro che sfocerà in un volume illustrato per i tipi di Diabasis, realizzato in collaborazione con Giorgio Messori. Le restanti fotografie sono invece parte del ciclo Genova (2002-2003), condotto nell’ambito del progetto “Atlante italiano 003” bandito dal DARC (Direzione per l’arte e l’architettura contemporanea), un concorso a inviti che è valso a Fossati il primo premio proprio per questi scatti dedicati all’arco portuale del capoluogo ligure. La collaborazione con la DARC ha poi avuto uno sviluppo importante, poiché Fossati ha partecipato alla mostra “Sguardi contemporanei. 50 anni di architettura italiana”, allestita alla IX Biennale di Architettura.
Tornando al ciclo dedicato a Genova, si potrebbe a buon diritto sostenere che esso compendia magistralmente l’approccio di Fossati alla fotografia di paesaggio. Per esempio, lo scatto che ha come soggetto l’abonorm cantiere navale adotta una prospettiva centrale banale a un primo sguardo, senza alcuna pretesa virtuosistica.
Naturalmente non sono riscontrabili interventi di post-produzione, alcun effetto digitale o di stampa. Ma la qualità formale dell’inquadratura, la simmetria cromatica che si sfalda man mano che i dettagli divengono campo lungo creano un corto circuito all’interno della prima visione, anodina, dello scatto. Allora l’impressione primigenia di banalità cede il passo non tanto al riscontro di una mano esperta, bensì al reperimento di una sorta di ready-made visivo di archeologia industriale ancora vivente. È ciò che ha recentemente sottolineato Roberta Valtorta, facendo notare come per Fossati il paesaggio diventi un “esercizio dello sguardo” consegnato all’osservatore, al suo occhio stimolato dalla “messa in scena” dello scatto che, come si diceva, non si avvale di effetti posticci, ma esclusivamente della cattura di una particolarissima porzione del percepito. Ciò che dunque emerge con forza è un intento profondamente non-documentaristico, almeno se si intende quest’ultimo termine in un senso positivista e oggettivistico. Quel che pare interessare Fossati è, al contrario, stabilire una spiccata relazionalità fra chi guarda e cosa è osservato, guidata con leggerezza dall’inquadratura, dai pattern visivi, dall’atmosfera creata dalla luminosità. Una guida tutt’altro che impositiva, che piuttosto scaturisce quasi naturalmente da una visione che sia appena interessata alle grandi stampe.
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marco enrico giacomelli
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