È l’amore per il male che permette di tentare, di conoscere e, infine, di salvare il mondo, trasformandolo in un segreto da conservare. In un groviglio di idee, svelato solo nella complessità delle sue contraddizioni. Solo così, forse, sarà possibile superare il decreto di Anassimandro, quel postulato che è all’origine del nostro pensiero occidentale, cioè che le cose vengano a galla nel reale solo attraverso una violenza che restituisce giusta violenza. Quella stessa, ponderata ed esatta forza distruttiva che poi provvederà ad annientarle, secondo l’ordine del tempo.
Spesso, per avvertirne la profonda bellezza (per quanto riguarda questa continua, dolorosa, conquista di spazi invisibili) bisogna portare dentro di sé almeno una labile traccia dell’orrore e del buio che animano la mente e la spingono alla ricerca di terre imprendibili, di chimere ancestrali. Idoli e simulacri, allora, in questo cupo paesaggio, hanno il preciso scopo di
mettere in condizione di.
Di far trovare la giusta posizione, a chi adora l’immagine, posizione che lasci cogliere il mistero delle cose del mondo, eliminando l’ansia del sapere che sposta l’uomo sempre oltre il loro orizzonte di
materie.
Roberto Cuoghi (Modena, 1973; vive a Milano) restituisce a quanto fin qui oscuramente annunciato una dimensione ritmica.
Attraverso
Šuillakku -personale composta da un’installazione sonora diffusa lungo novecento metri quadri e da una statua alta quasi cinque metri- l’artista modenese ripropone i pensieri, le idee e le immedesimazioni colte durante un percorso di
transfert. Durante, cioè, quel viaggio mentale intrapreso lungo mesi di ricerche, che hanno portato Cuoghi ad addentrarsi nel mondo archeologico e storiografico degli antichi assiri.
Šuillakku è infatti il termine designato alla posizione di preghiera corale assira, preghiera messa in opera con una mano alzata, come vettore di congiungimento con il divino, per dare maggior vigore alle invocazioni.
Questa modulazione corporea d’esultanza è immaginata da Cuoghi come la stessa postura del dio Pazuzu. Un dio del male contro il male, che usava la propria mostruosità, la propria
theriogenia -Cuoghi lo rappresenta con coda di scorpione, artigli e testa da cerbero- per proteggere in caso di pericolo. Nel caso in cui, ad esempio, così come riprodotto nel racconto sonoro dell’installazione in un rievocato assedio di Ninive, alcuni musici, per difendersi dalla cattura, abbiano dovuto sedare il nemico dimostrando il loro valore artistico. Tutto il canto, sparso lungo i cinque saloni del terzo piano, è un coro di voci modulate dallo stesso Cuoghi che ripropone questa scena di Ninive, cantando identico anche se diverso, per ogni traccia sonora.
All’interno di questo loop, l’artista immagina le preghiere miste ai canti che, intonate in onore del dio Pazuzu, dio del male contro il male, avrebbero potuto lasciare salva la vita a chi, come i musici, millenni orsono erano considerati una casta molto vicina al divino. Quindi degna della massima reverenza. Anche se espressa dal peggiore dei nemici, l’oppressore.