Mathew Sawyer (Londra, 1977) sostiene che l’arte è il modo per instaurare un dialogo con gli altri, e per questo nel corso della sua ancor breve, ma già ricca, attività si è servito di disparati media per raggiungere questo risultato.
Data questa varietà stilistica, che ne sottolinea il lodevole interesse per la scoperta e il desiderio di testare i limiti dell’esibizione, risulta, purtroppo, difficoltoso seguire in uno spazio contenuto come è quello di una galleria un percorso così denso di lavori che rischiano di soccombere l’uno sotto l’altro.
Nella prima sala vengono proposti due video nei quali sono documentate due performances di cui Sawyer è protagonista. Nella prima proiezione si esibisce, in versione vagamente beat, sotto una pensilina con una ballata romanticamente ironica che egli stesso ha scritto, lasciando spazio all’inserimento di effetti speciali che richiamano i videoclip anni ’80. Nell’altra suona davanti ad una finestra uno xilofono a intervalli regolari e lenti, durante i quali il rimbombo stridulo delle note percosse creano stacchi vuoti e drammatici all’interno di un carteggio che dialoga con il flusso delle automobili.
Si entra nell’affollatissima (forse troppo) seconda sala. Su un parallelepipedo bianco è poggiato un lettore cd. Inutile dire che si tratta delle canzoni scritte e interpretate dall’artista. Accanto a quattro foto che immortalano le espressioni interrogative di cani in attesa del padrone, Sawyer affianca i suoi pensieri riguardo a ciò che ha voluto cogliere in quegli scatti: sguardi speranzosi e curiosi di creature indifese che si affidano completamente agli uomini. E ancora in un unico quadro è assemblata la documentazione di un progetto: il tentativo di farsi riconoscere da negozianti cui per nove giorni l’artista si è presentato come cliente.
Su una delle pareti emerge un ampio e coloratissimo quadro, dalla composizione disordinata e casuale, che ammicca alla pop attraverso un collage, elaborato digitalmente, che si compone d’immagini prelevate da internet. Un altro quadro dalle tinte forti e fosforescenti rimarca il desiderio di farsi ascoltare dell’artista incastonandone ancora un messaggio: blame it on the sunshine.
Sogni trascritti a macchina e poi regolarmente incorniciati raccontano le avventure e i dialoghi surreali di Sawyer con Carl Andre e John Lennon. E infine tanti disegni enigmatici, che ricordano l’amara iconografia di Oyvind Fahlström, sono accostati l’uno accanto all’altro ad occupare un’intera parete, ma senza portare avanti un qualsiasi percorso narrativo.
monica trigona
mostra visitata il 15 marzo 2005
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brava sonia una bella mostra